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John Deere 8R, il trattore autonomo

Se qualcuno dovesse chiedermi quale sia l’innovazione più inattesa e intrigante vista al CES 2022, non avrei difficoltà a rispondere “Il trattore autonomo John Deere 8R”.

Un gigante da 18 tonnellate che se ne scorrazza tranquillo lungo gli sterminati campi coltivati americani, grazie a una combinazione tra telecamere stereo (cioè che replicano la visione umana), Intelligenza artificiale, tecnologia GPS, connessione mobile, sistemi per la semina ad alta precisione.

Un pezzo del futuro di un settore, l’agricoltura, ad altissima richiesta di innovazione, sempre in cerca di soluzioni hi-tech orientate a risolvere tre problemi principali: ridurre la fatica degli agricoltori, aumentare la produttività dei terreni in vista dell’esplosione demografica, ridurre l’impatto ambientale in ogni sua forma.

Qui il pezzo su Corriere Motori

Da Eta Beta su Rai Radio1 per commentare il CES 2022

Sabato mattina ripartiva EtaBeta su Rai Radio1 con una puntata dedicata al CES di Las Vegas: evento che amo, ma che anche quest’anno ho preferito seguire a distanza tramite la piattaforma online ovviamente a causa del Covid-19.

Molti i temi affrontati, con ampio spazio dedicato alla nuova mobilità elettrica e iper tecnologica (ormai questione centrale alla kermesse), alla metàmobilità, al metaverso e, inevitabilmente, ai gadget tech di ogni tipo.

Una buona parte del tempo è stata dedicata anche a rispondere ai molti commenti preoccupati (e un po’ neo-luddisti) ricevuti prima sui social (quando @maxcerof ha annunciato la puntata) e live durante la trasmissione. Commenti peraltro inviati – lo ricordiamo – utilizzando quelle stesse tecnologie che essi hanno voluto criticare.

Insomma, è stato divertente, e se volete riascoltare la trasmissione, potete farlo recuperando la puntata sulla nuova app Raiplay.

La tecnologia “po esse fero e po esse piuma”

Domani sarò ospite di Eta Beta (dalle 11.30) per parlare del CES di Las Vegas. Nel presentare su Linkedin la puntata, Massimo Cerofolini inizia scrivendo: “Prepariamoci. Presto avremo una copia virtuale di noi stessi che si muove nei nuovi paesaggi digitali del Metaverso”. I commenti preoccupati che il suo post ha generato, mi hanno spinto a condividere nei commenti le seguenti osservazioni.

Nota bene: “prepariamoci”, come scrive Massimo Cerofolini, non significa “alziamo barricate contro il progresso disumanizzante, diamo fuoco ai server dei big tech, scendiamo in piazza contro il Metaverso, e dove andremo a finire signora mia” ecc. ecc, come a qualcuno piacerà sicuramente pensare.

Significa piuttosto “restiamo consapevoli, informati, aggiornati”. Perché il progresso tecnologico è inarrestabile, i cambiamenti arrivano e arriveranno che noi lo si voglia o no, e se davvero vogliamo restare umani, e vogliamo che le innovazioni siano “umano-centriche”, di questo progresso dobbiamo essere parte attiva e consapevole.

La tecnologia in sé non è il problema. Il problema è quali obiettivi ci vogliamo dare come specie, quale futuro vogliamo costruire come umanità. Una volta stabilito questo, insieme, allora ogni strumento, tecnologico e non, potrà essere asservito a perseguire gli obiettivi. Se invece non lo facciamo, allora saranno gli strumenti che usiamo a plasmare noi e la nostra società in modi imprevedibili, e la colpa sarà solo nostra.

La realtà virtuale (il Metaverso a cui consente di accedere), ad esempio, “po esse fero e po esse piuma”, può servire ad espandere le nostre percezioni e – scopriamo dal CES2022 – forse in futuro ci consentirà di gestire robot a distanza come fossero avatar nel mondo fisico. Oppure, al contrario, potrebbe essere utilizzata per isolarci, manipolarci e controllarci come una versione sotto steroidi del 1984 di Orwell.

Quale delle due ipotesi prenderà infine forma, è un problema culturale, sociale e politico, quindi squisitamente nostro. Di tutti. Ed è ora, oggi, che dobbiamo esigere come comunità di poter scegliere, di poter indirizzare l’uso di queste tecnologie (oggi definito da pochi oligarchi miliardari) verso il bene. Prima che sia troppo tardi.

Il resto sono chiacchiere.

I maestri dello scatto alle prese con la rivoluzione digitale

Chiudere l’anno, all’ultimo giorno, con il pezzo su l’Espresso a cui tengo di più: quello, per intenderci, dove intervisto il maestro Gianni Berengo Gardin, il premio Pulitzer Nick Ut, il Fashion Photographer Amedeo Turello e l’americano Craig Semetko per parlare con loro di come sono cambiati la fotografia e il loro lavoro con l’avvento del digitale. E dove Andreas Kaufmann, amministratore delegato di Leica Camera, insieme con Renato Rappaini, direttore generale di Leica Italia, ci aiutano a capire in che direzione sta andando l’intero settore.

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Nick Ut che fotografa Andreas Kaufmann – CEO Leica – mentre entrambi sono fotografati da Craig Semetko (che fotografa loro e me)

Dal sito de L’Espresso: “Non pensare, guarda, punta, scatta. Quando la fotografia diventa Pop”


«Non pensare. Guarda, punta, scatta. Per ragionare c’è sempre tempo. Per correggere gli errori non mancano software quasi onnipotenti. L’importante è catturare l’attimo alla meglio, fissare l’immagine usando quello che ci si trova in tasca o nella borsa: spesso è lo smartphone; a volte è una reflex o una mirrorless di fascia alta; sempre più raramente una compatta.
E’ l’era della snapshot photography, degli scatti eseguiti in modo casuale e imperfetto: semplificando al massimo, oggi tutti fanno foto senza bisogno di essere fotografi, senza costi per le attrezzature, di sviluppo o di stampa. Senza troppe pretese, ma con implacabile determinazione a condividere tutto o quasi online.
La fotografia (o almeno una parte consistente di essa) è cambiata: è diventata Pop».

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AppyDays 2014, a Todi per parlare di Citizen Journalism, iFitness, iHealth

copertinaParte oggi la prima edizione di AppyDays, eventone organizzato a Todi da dall’immarcescibile squadra di IQUII insieme con la macchina da guerra targata Sediciveventi. Per quattro giorni la gente accorrerà nella splendida cittadina umbra per discutere di tutto, ma proprio tutto quello che c’è da sapere sul mondo delle App e dell’hardware (wearable) ad esse correlato.

Il programma è vasto, vario e affascinante.  Il target è il grande pubblico. La mission è diffondere la cultura del digitale in Italia. Le previsioni del tempo parlano di sole e temperature miti.

Insomma, non avete scuse.

Per quanto mi riguarda, io ci sarò con le tre iniziative che ho proposto, due il venerdì e una la domenica mattina:

1) SIAMO TUTTI REPORTER? (breve workshop organizzato con l’ottima Michela Gentili, founder del laboratorio giornalistico @labora e grande formatrice) – Venerdì 26, ore 17.00 | Sala delle Ceramiche;
2) DIGITAL FITNESS: GRAZIE AD APP E WEARABLE DEVICE, ALLENARSI NON È MAI STATO COSÌ HI-TECH (ED EFFICACE) – Venerdì 26, ore 19.00 | Sala Affrescata Via del Monte;
3) DIGITAL HEALTH: QUANDO APP E WEARABLE DEVICE SI METTONO AL SERVIZIO DELLA SALUTE – Domenica 28, ore 10.00 | Sala del Consiglio;

Ecco di seguito le rispettive presentazioni di ogni appuntamento e gli ospiti. Se ci siete, passate a trovarci.

1) SIAMO TUTTI REPORTER?
Atterrano gli alieni. Voi siete lì, unici testimoni oculari di una scena che potrebbe cambiare la storia del mondo. Come vi comportate?
Se siete tra i 25 milioni di italiani che possiedono uno smartphone, in tasca avete un potente strumento per raccontare in anteprima e in tempo reale la prima invasione aliena. Sempre che voi sappiate come farlo.
E se non lo sapete ve lo spieghiamo noi. Il workshop “Siamo tutti reporter?” aiuta a capire come trattare un evento a cui si assiste per caso (o quasi) per farlo entrare nel circuito delle notizie.
Spiegheremo passo dopo passo con che strumenti riprendere e documentare l’avvenimento, quali applicazioni utilizzare per elaborare il materiale, che social network scegliere per diffondere la notizia.
Un workshop aperto a tutti, utile a chi desidera dare un senso alle enormi potenzialità dei device che tiene in tasca, ma anche ai professionisti dell’informazione che vogliono aggiornare le proprie competenze nell’epoca del mobile.

Michela Gentili Fondatrice @Labora
Alessio Jacona Giornalista, consulente di comunicazione online, fotografo

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2) DIGITAL FITNESS: GRAZIE AD APP E WEARABLE DEVICE, ALLENARSI NON È MAI STATO COSÌ HI-TECH (ED EFFICACE)
La parola d’ordine è monitorare: la velocità, il numero di chilometri percorsi, il battito cardiaco, le calorie bruciate, la buona o cattiva riuscita di ogni allenamento. Perché più dati raccogliamo su noi stessi, meglio siamo in grado conoscere i nostri limiti e lavorare per superarli, o anche solo per sentirci più sani e in forma.
La strategia per riuscirci è ricoprirsi di sensori e dispositivi wireless (dal costo sempre più economico) che per esempio prendono le sembianze di orologi supertecnologici da portare sul polsino, braccialetti colorati o ancora semplici cerotti da nascondere sotto i vestiti. E che ovviamente interagiscono con app di ogni genere e tipo.
E’ la Digital Fitness, ovvero l’arte di allenarsi nell’era della mobile technology: un cambio di scenario che si rivela ricco di opportunità e sfida per tutti gli sportivi, siano essi agonisti o semplici appassionati.

Ospiti:
– Roberto Nava – Founder RunLikeNeverBefore
– Andrea Tellatin – CEO Si14
– Fabio Lalli – CEO di IQUII

Modera: Alessio Jacona – Giornalista, consulente di comunicazione online, fotografo

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3) DIGITAL HEALTH: QUANDO APP E WEARABLE DEVICE SI METTONO AL SERVIZIO DELLA SALUTE
Spesso i pazienti necessitano osservazione costante, che sia per vegliare sulla loro stessa incolumità, per valutarne lo stato generale o anche semplicemente per mettere a punto e somministrare terapie personalizzate, quindi più efficaci.
Fino ad oggi il costo proibitivo degli apparecchi medicali rendeva complesso e costoso un monitoraggio puntuale di ogni paziente. Ora invece, grazie a tecnologie wearable sempre meno costose, a smartphone e tablet sempre più potenti e al moltiplicarsi di app dedicate, la cosiddetta telemedicina sembrebbe finalmente sul punto di diventare realtà.
Quel che è certo, è che non si tratta dell’ultima e passeggera moda tecnologica nata in Silicon Valley: siamo anzi di fronte a un mercato fiorente e in rapida espansione con cui medici, legislatori e pazienti devono fare i conti, tanto per cogliere le opportunità, quanto per vincere le sfide che il nuovo scenario ci pone di fronte.

Ospiti:
– Francesco Romano Marcellino – CEO Datawizard/Pharmawizard
– Floriano Bonfigli – Fondatore di Collabobeat
– Edoardo Schenardi – Farmacia Serra Genova

Modera: Alessio Jacona – Giornalista, consulente di comunicazione online, fotografo

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Alla Blogfest per parlare di startup hardware all’italiana

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UPDATE 2: la location del panel è il Club Nautico di Rimini, piazzale Boscovich, 12

 

Update: ho il piacere di annunciare che al panel parteciperà anche Paolo Barberis, co-fondatore di Dada e dell’acceleratore per startup  Nana Bianca

Anche quest’anno alla Blogfest mi tocca lavorare. Modero un panel il primo giorno, di cui scriverò poi, e un altro l’ultimo giorno, che ho organizzato personalmente e nel quale affronteremo alcune domande che meritano di essere poste, ovvero: perché ci sono così poche startup hardware in Italia? Cosa cambierebbe se ce ne fossero di più? E soprattutto, perché dovrebbero essercene di più e cosa fare affinché il miracolo accada?

Il titolo e la sintesi del panel, che potrete vedere “live” domenica 22 settembre alle 10.30 presso il Circolo Nautico di Rimini, sono i seguenti:

Startup Hardware all’italiana: perché sono poche, perché dovrebbero (e potrebbero) essere molte.

Non esiste solo il software. Quando talento, nuove tecnologie e fiuto imprenditoriale si uniscono, il risultato non deve essere necessariamente il prossimo facebook o la prossima killer app, ma può essere un prodotto tangibile, dell’utile Hardware da toccare con mano. Le storie dietro oggetti come Pebble Watch e la console Ouya, o ancora le esperienze italiane di Jusp e PlusPlugg, insegnano come le startup hardware possano creare oggetti nuovi e rivoluzionari, ma anche che spesso debbano riuscirci affrontando notevoli difficoltà.
L’Italia, che nonostante anni di  profonda crisi economica vanta ancora eccellenti capacità industriali, meccaniche e meccatroniche, potrebbe essere il luogo ideale dove far fiorire startup hardware di successo, le quali  invece si contano ancora sulla punta delle dita.  Proviamo a capire insieme perché e come fare meglio.
Gli ospiti sono:
– Jari Ognibeni, co-founder e managing partner Industrio
– Claudio Carnevali, Ceo e fondatore  di Openpicus
– Giuseppe Saponaro, co founder e COO di JUSP
– Paolo Barberis, co-fondatore di Dada e dell’acceleratore per startup  Nana Bianca
Nell’ora a nostra disposizione cercheremo di dare qualche risposta e di porre qualche altra domanda – speriamo – utile a promuovere il dibattito stimolare l’interesse verso un’opportunità di crescita e innovazione che di interesse ne merita tanto. Sia da parte dei potenziali imprenditori, sia da quella degli investitori.
Intanto, giusto per invogliarvi, metto di seguito l’incipit di un pezzo sullo stesso tema pubblicato su Agendadigitale.eu, nella quale intervisto proprio Ognibeni e Carnevali insieme con Marco Magnocavallo, co-fondatore dell’acceleratore Boox e già partner del Venture Capital italiano Principia, e il sempre ottimo Fabio Lalli, Ceo  di Iquii.
Nel caso, ci si vede a Rimini.
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La dura vita delle startup hardware italiane
C’è chi, nel profondo Nordest, si sta attrezzando per scommettere sulle potenzialità del nostro Paese in questo ambito. Ma c’è di fondo un problema culturale, di distribuzione e di approccio al funding che ostacola lo sviluppo di questo tipo di startup. Eppure ci sono novità che fanno ben sperare. Ce ne parlano gli addetti ai lavori specializzati

Startup hardware, capaci di convogliare tecnologia, know how e idee innovative in un prodotto tangibile, che esista nel mondo reale, che si possa toccare con mano. In Italia ce ne sono molto poche. In Italia dovrebbero essercene molte di più: il nostro Paese, nonostante anni di crisi, ha ancora dalla sua delle capacità industriali, meccaniche e meccatroniche uniche al mondo. Qualcosa su cui puntare oggi più che mai per rilanciare l’economia in ginocchio, per valorizzare il talento, per creare nuovo valore.
Continua a leggere su Agendadigitale.eu

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Aggiungi l’evento al calendario

Credit per l’immagine: Roberto Grassilli

Il Personal Cloud spiegato da Doc Searls (video intervista)

In principio era il Cluetrain Manifesto. Testo rivoluzionario pubblicato nel 1999 in forma di 95 tesi (a riecheggiare la dirompente opera di Martin Lutero), il documento fotografava con straordinaria lucidità i profondi

Doc_Searlscambiamenti che l’avvento di Internet e dell’e-commerce stavano generando (e avrebbero generato) nei mercati planetari. Portava la firma di David Weinberger, Christopher Locke, Rick Levine e Doc Searls, ed è proprio a quest’ultimo che si attribuisce la prima e forse la più citata delle tesi:

“I mercati sono conversazioni”

Nove anni dopo, nel 2008, lo intervistai per Nova24 e mi spiegò che la crescita esponenziale delle presenze e delle conversazioni in rete, agevolate dall’avvento delle piattaforme di social networking, aveva cambiato le carte in tavola trasformando in mercati in “relazioni”.

Riepilogando, il nuovo teorema è che «i mercati sono relazioni». E se le aziende non sanno come muoversi, Searls sembra invece avere le idee molto chiare sul da farsi: «Insieme al Berkman Center for Internet and Society sto lavorando a un progetto di Vendor Relationship Management (VRM), ovvero l’opposto del Customer Relationship Management (CRM): il nostro scopo è creare strumenti che rendano le persone capaci di dialogare ad armi pari con le aziende ma anche con le istituzioni, con i governi e con qualsiasi organizzazione. In questo modo diventeranno cittadini migliori, interlocutori con cui vale la pena confrontarsi piuttosto che semplici clienti ai quali prendere i soldi e basta».

Poco tempo fa ho incontrato di nuovo Searls nel meraviglioso e fertile contesto di State of the Net e, durante una breve intervista (nel video di seguito), mi ha spiegato quale impatto sul contesto che studia da anni stia avendo l’avvento e la diffusione dei servizi di Cloud computing. Stiamo entrando nell’era del Personal Cloud – sostiene Doc Searls – dove servizi inizialmente pensati per il b2b si rivelano ora come la preziosa infrastruttura su cui costruire vere e proprie Life Management Platforms.

Intervista realizzata insieme con Antonio Giacomin.

I dipendenti “aumentati” che cambiano l’azienda

Qualcosa è cambiato: è un “uomo nuovo” e inevitabilmente diverso da ciò che era solo 5 anni fa quello che oggi entra in azienda, siede al suo posto di lavoro, svolge i suo compiti. Quando varca la porta dell’ufficio, lo fa portando in dote quella abitudine alla condivisione della conoscenza che ha fatto propria frequentando la “parte abitata della rete” – come l’ha chiamata a ragione Sergio Maistrello – vivendo ogni giorno la propria esistenza digitale su social network come Facebook o Twitter, dove raccoglie, consuma, rilancia e, sempre più spesso, produce un’infinità di idee, spunti contenuti.

E dove, nel privato, impara nuovi linguaggi e nuove regole di interazione aperti e trasparenti, che nascono per essere pubblici e condivisi. Nuovi codici di comunicazione e interazione che, come suggerisce il Venture Capitalist americano Greg Horowitt, nel momento in cui entrano in azienda creano le condizioni per la nascita di «un nuovo modello business basato su un nuovo contratto sociale». Un modo diverso di fare impresa in virtù del quale, oltre che riconoscere il talento e cercare in tutti i modi di farlo emergere e sostenerlo, «è altrettanto  fondamentale che tutti partecipino alla costruzione di un ecosistema in cui esso possa prosperare», lasciandosi alla spalle la competizione ad ogni costo.

Quindi ben venga in azienda il “dipendente aumentato”, che più o meno volontariamente si fa ambasciatore e protagonista dell’apertura e della libera circolazione delle informazioni come valori chiave nello sviluppo del business; quello che come rivela Derrick de Kerckhove, direttore del McLuhan Program in Culture and Technology, è «un information broker, un soggetto naturalmente predisposto allo scambio di informazioni utili agli altri». In altre parole, un «uomo diverso, abilissimo nel creare connessioni e che presto assumerà un ruolo sempre più importante nella comunicazione corporate, interna ed esterna».

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Giornalisti e citizen journalist, c’è posto per (e bisogno di) tutti

Internet fa bene o male al giornalismo? Una domanda ricorrente, che da anni risuona nei convegni, durante i telegiornali, persino davanti ai banconi del bar. Ma se la domanda non è cambiata, a mutare nel tempo è stata sicuramente la risposta. All’inizio, l’opinione diffusa tra gli operatori del settore era che blog prima e social network poi fossero come una pistola carica nelle mani di giornalisti improvvisati, incapaci di verificare le fonti o distinguere la verità dalle fandonie, ma in compenso abilissimi nel diffondere e rilanciare balle incontrollabili e spesso anche pericolose.

Questo forse in parte era vero e in parte –obiettavano gli entusiasti del nuovo “giornalismo dal Basso” – un tentativo estremo ed inutile della stampa di difendere posizione, ruolo e privilegi. Quale che fosse la ragione, quel periodo di duro confronto sembra essere ormai alle spalle: la conferma arriva da alcune testimonianze raccolte durante la seconda giornata del Social Media World Forum a margine di un panel dedicato a “Social media and the news”. Il primo a dare un’idea precisa del nuovo corso è Mark Jones, Global Community Editor per Reuters, secondo il quale “i media sociali stanno migliorando il giornalismo, perché mettono a disposizione di chi fa informazioni nuove e valide fonti, diffondendo informazioni in un formato chiaro e semplice da usare”.

Gli fa eco Nick Petrie, Social Media & Campaigns Editor per The Times, che arricchisce il quadro sostenendo che “uno dei principali cambiamenti introdotti nella professione dall’avvento dei social media è che i giornalisti non hanno più il controllo delle storie che raccontano”, perché nel momento in cui le pubblicano esse appartengono ai lettori. Questi si guardano bene dal fruirle passivamente e le rilanciano, integrano, commentano oppure demoliscono mentre ci costruiscono intorno una conversazione alla quale il giornalista può e deve partecipare, che può provare a indirizzare ma che non può governare. E questo perché, dice sempre Petrie, nel moderno mondo dei media, “una volta pubblicata, la storia di ognuno diventa la storia di tutti”.

In questo contesto incredibilmente dinamico, dove l’ informazione è liquida e scorre ad altissima velocità, il mestiere del giornalista non passa certo di moda, ma assume una funzione nuova e richiede nuove skill: se infatti è vero che la “verifica delle nuove fonti è ancora una forma d’arte in via di definizione” – come ammette ironicamente Mark Jones – altrettanto vero è che il lavoro del giornalista si focalizza sempre di più sulla “content curation”, ovvero sulla selezione, la verifica dell’attendibilità, la cura (di forma, struttura), e la presentazione dei contenuti giornalistici dispersi nel world wide web. Oltre che ovviamente la produzione di approfondimenti ed analisi.

E se la cura dei contenuti diventa centrale alla professione, magari agevolata dal fatto che i social media consentono al giornalista di sentire il polso del lettore e capire cosa gli interessa davvero, allora la velocità di pubblicazione passa – finalmente – in secondo piano. Perché nessuna testata, per quanto grande, può competere con un esercito composto da milioni di potenziali citizen journalist, e perché il fattore differenziante, il focus del lavoro giornalistico diventa l’analisi delle cose e dei fatti. Che per definizione richiede tempo.

“Il giornalismo è cambiato, passando dal controllo dell’agenda delle notizie alla content curation e alla produzione di contenuti di qualità”, spiega infatti Peter Bale, Vice Presidente e General Manager per Cnn. Che poi sentenzia: “Un pezzo di 600 parole pubblicato due giorni dopo un evento ormai è morto in partenza. Oggi è tutto breaking news da 140 caratteri cui devono fare seguito approfondimenti di qualità”. Ed è qui che i professionisti del mestiere possono e devono fare la differenza.

Altro tema emerso a Londra riguarda la presenza del giornalista in rete: nel web sociale, dove la personalità emerge prepotentemente dietro la professionalità e dove il confine tra pubblico e privato diventa labile fino a sparire, “ogni giornalista è un brand” – afferma ancora Peter Bale – e deve svolgere un ruolo di ambasciatore presso gli utenti, contribuendo in prima persona all’immagine e alla credibilità della propria testata.

E quando infine chiediamo agli intervistati quali sono secondo loro le abilità fondamentali che ogni giornalista moderno dovrebbe avere, questi rispondono all’unanimità: deve abitare e conoscere i social media, sapere mettere in relazione fatti, notizie e fonti per effettuare puntuali verifiche incrociate e, soprattutto, deve essere (molto) scettico.

NB: Questo pezzo è tratto da Wired.it dove è stato pubblicato sotto licenza Creative Commons.

Su L’Espresso, la guerra globale tra industria discografica e pirateria digitale (Aggiornato)

Dopo aver parlato di start up all’italiana e di open source nella PA, è letteralmente tempo di “cambiare musica”: su L’Espresso di oggi, pagine 134 – 137, trovate un pezzo scritto a quattro mani con Diletta Parlangeli (cui peraltro va il merito di aver individuato l’argomento) e intitolato “Se il Pc spegne la musica”. Questo il catenaccio:

“Le Major fanno chiudere i siti e chiedono leggi anti-download. Ma la repressione rischia di essere un boomerang. Così si cercano altre strade”.

Di seguito, la copertina del pezzo nella sua versione per iPad. Subito sotto, l’incipit del pezzo, tanto per invogliarvi a leggerlo. Poi un’anticipazione.

 

 

La pirateria online? «Non si può combattere. Le Major dovrebbero accettare la realtà e sfruttare il fenomeno a loro vantaggio”.  E’ la voce di Dave Kusek – Vice Presidente del Berklee College of Music e co-autore di “The future of Music” – che suona fuori dal coro mentre si consuma un conflitto globale tra l’industria che produce musica e chi la scarica illegalmente in rete. Ultima battaglia della lunga guerra, la chiusura del sito di file hosting Megaupload, servizio cui 150 milioni di utenti nel mondo affidavano i proprio file e che le autorità statunitensi hanno sequestrato con un’operazione senza precedenti.

La “crociata” delle Major

D’altronde, è contro la pirateria digitale che l’industria punta il dito quando si parla di crisi del settore. Prova ne è il Digital Music Report 2012, ultima edizione dell’annuale ricerca realizzata per conto della Federazione internazionale dell’Industria Fonografica (IFPI): «Più di un utente su 4 (28%) fruisce illegalmente di musica online». E se è pur vero che, nel 2011, il mercato digitale globale è cresciuto dell’8% per superare i 5,2 miliardi di dollari di ricavi, altrettanto vero è che «la crescita registrata non riesce a temperare la perdita del mercato fisico, che prima reggeva il 40-50% del fatturato» come fa notare Alberto Cusella, discografico con alle spalle vent’anni in Warner. «La musica non è affatto in crisi. Ad essere in crisi è il mercato» aggiunge.

Il seguito su L’Espresso di oggi (“L’uomo che fa tremare il Centro Sinistra”) pagine 134- 137

PS: quest’anno con Diletta e alcuni degli intervistati saremo anche al Festival del Giornalismo di Perugia, dove abbiamo organizzato un panel per discutere di come cambia l’informazione musicale nell’era post-MySpace.

A breve dettagli anche su questo, so stay tuned!

Update: il pezzo ora è disponible online: “Discografici, reputazione k.o.

Update 2: sono disponibili anche le info relative al panel che abbiamo organizzato per il Festival del Giornalismo di Perugia, intitolato “Il giornalismo musicale nell’era del dopo MySpace