Funambol: successo italiano, capitale straniero

L’Italia non è luogo fertile per seminare idee vincenti. Un giovane imprenditore che, ad esempio, desideri mettere in piedi un’azienda sviluppatrice di “mobile 2.0 messaging software powered by open source”, deve nell’ordine:

1) mollare tutto e trasferirsi in America; e non in un posto qualunque, ma nella Silicon Valley;
2) trovare un lavoro che gli consenta di ottenere una “Green Card”, documento irrinunciabile se si vuole fare business serio negli USA;
3) Convincere i facoltosi VC americani che l’Italia è competitiva nel software development e che l’open source consente validi modelli di business.

Vi sembra un’impresa impossibile?

Forse, ma Fabrizio Capobianco, CEO di Funambol, c’è riuscito in pieno, tanto che oggi può dichiarare, non senza un certo orgoglio, che il suo software “has been downloaded more than one million times by over 10,000 contributors in 200 countries”.

Successo a parte resta tuttavia il fatto che, per avere un’opportunità seria, Capobianco ha dovuto lasciare questo decrepito Paese, attraversare l’Oceano e, una volta raggiunta la meta, mettere radici: “Gli americani hanno i loro schemi – spiegava l’imprenditore durante un intervento al Venture Camp di Roma – Se decidono di finanziarti, poi ti vogliono avere vicino, a portata di mano. Hanno bisogno di sapere che, se qualcosa non va, in cinque minuti possono essere nel tuo ufficio e fare la voce grossa”.

Ciò detto, Funambol resta un’azienda italiana: dei 70 dipendenti attualmente sul libro paga, 40 sono a Pavia, dove sviluppano il software collaborando con la comunità open source. In pratica i finanziatori americani hanno investito su un’azienda offshore. Ne è valsa la pena o era meglio puntare sull’India? “L’Oriente non ci fa paura – spiega ancora Fabrizio Capobianco – Cina e India sono competitive con l’Italia in altri mercati, come ad esempio quello manifatturiero, ma non nel software. Gli informatici indiani, ad esempio, costano sempre di più e agiscono in un contesto privo di regolamentazione sui copyright: il risultato è che passano da un miglior offerente all’altro portandosi dietro il software che sviluppano, con tutte le conseguenze del caso. Gli italiani invece – aggiunge il CEO – sono molto più seri, lavorano meglio in gruppo, sono fedeli all’azienda e, soprattutto, più creativi.”

Insomma, in Italia di VC non se ne vede l’ombra. Qualcuno riesce a trovare maggior fortuna all’estero, ma riceve credito solo se non torna in Italia. E il futuro? Secondo Capobianco il prossimo step è convincere gli americani a investire direttamente sul nostro pastrio suolo. Successivamente si dovranno creare le condizioni per un VC all’italiana vero e credibile.

Hai detto niente.

Per saperne di più:

Il blog di Fabrizio Capobianco

2 pensieri su “Funambol: successo italiano, capitale straniero

  1. Leo Aruta

    Ero presente anche io al VentureCamp di Roma. Da informatico di vecchia data non posso nascondere lo stupore nel sapere che gli informatici italiani sono i migliori perchè, seppure i peggio pagati, sono quelli più fedeli e creativi (la creatività è nel nostro DNA e i cinesi non possono copiarcela)
    Leo

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