La mia generazione è la prima che ha imparato più parole dalla televisione che dai propri genitori; che – almeno nei primi anni di vita – ha appreso più informazioni dai documentari in tv che dai libri di scuola.
La mia generazione è cresciuta imparando di natura, spazio, energia nucleare, deserti, biologia molecolare (e qualsiasi altra cosa vi possa venire in mente) soprattutto dalla viva voce di Piero Angela, che solo pochi giorni fa festeggiava il suo “personale giubileo” con 70 anni di carriera in Rai (tanti quanti la regina Elisabetta ne ha passati con la corona in testa).
E che oggi ci lascia, a 93 anni, portandosi dietro nel suo ultimo viaggio la mia immensa gratitudine per la conoscenza che ha diffuso, per la classe e umiltà con cui ha fatto informazione di alto livello, e per aver mantenuto vivo il ruolo di servizio pubblico della Rai.
Ho ritrovato in archivio questa foto, dove è fuori fuoco e quasi etereo, impalpabile. È in secondo piano dietro Umberto Eco, altro gigante e primo soggetto di un ritratto scattato al festival della Comunicazione di Camogli del 2015. Insieme, rappresentano due modi diversi e complementari di produrre e diffondere conoscenza che forse non esistono più, ma di cui abbiamo ancora immenso bisogno.
“In Vivavoce” è il contenitore pomeridiano di Radio 1 che ogni giorno segue le notizie principali e la loro evoluzione. «Uno sguardo disincantato al costume, alla cronaca, alla politica, lungo un inedito filo conduttore che, oltre la linea delle notizie, tiene insieme i fatti principali e una colonna sonora originale», si legge nella presentazione del programma.
Più disincantato che mai, ieri ho partecipato a una puntata dedicata allo stato delle cose in Italia e in Europa rispetto alla diffusione delle auto elettriche e, più in generale, alla gigantesca trasformazione in corso nell’industria automotive, che sta cambiando l’idea stessa di mobilità.
Con me erano ospiti anche Marta Paterlini, ricercatrice al Karolinska Institute di Stoccolma e giornalista scientifica, e l’ottimo Udo Gumpel, corrispondente in Italia della tv tedesca RTL. Per conto mio, ho aperto questa sezione del programma rispondendo a domande sullo stato dell’arte del mercato di EV in Italia e abbiamo parlato di:
– incentivi dati, tolti e comunque da più parti invocati perché ritenuti necessari per superare la transizione dall’endotermico all’elettrico;
– di come la rivoluzione in corso non riguardi solo il prodotto auto, ma anche tutta la filiera, dalle fabbriche che lo costruiscono, a chi produce l’energia per alimentarlo, passando per chi sviluppa le infrastrutture di ricarica o deve produrre e smaltire le batterie, fino ai decisori pubblici. Perché l’elettrificazione della mobilità è una rivoluzione che riguarda e coinvolge tutti gli stakeholder, a ogni livello;
– e, infine, delle difficoltà intrinseche a una poderosa transizione che non nasce dalla maturità delle tecnologie o dalla domanda di mercato, ma da regole imposte dall’alto, figlie delle necessità di fronteggiare il cambiamento climatico.
Necessità indiscutibile, ma che a conti fatti ci ha costretto a inseguire precipitosamente un cambiamento per il quale forse non eravamo ancora pronti.
Nel 2014 Leica compiva 100 anni. Un secolo di macchine fotografiche eccellenti finite nelle mani di Fotografi con la F maiuscola, che con esse hanno raccontato il mondo mentre accadeva.
A maggio sempre dello stesso anno, per celebrare quello che chiamava il suo Giubileo, l’azienda tedesca inaugurò un nuovo quartier generale a Wetzlar (un’ora di macchina da Francoforte), tornando nel piccolo paese dove la sua storia era iniziata.
Fu un evento notevole: nel complesso nuovo di zecca (le cui due torri sono a forma di obiettivo Leica), tra esposizioni di fotocamere, selezioni di scatti che hanno fatto la storia e linee di produzione dove si incontrano tecnologia e artigianato, andò in scena una festa memorabile. Presenti i più importanti fotografi Leica viventi, era facile imbattersi in personaggi come Nick Ut, Craig Semetko, Elliott Erwitt o Gianni Berengo Gardin. Ne intervistai molti, e chiesi loro come cambiava il lavoro del fotografo professionista in un mondo in cui venivano postate milioni di foto al giorno, ma anche come vivevano la digitalizzazione della fotografia (su cosa mi dissero, torneremo più avanti).
Festa a parte, al tempo era difficile interpretare l’evento Leica: era il canto del cigno di un dinosauro destinato a essere spazzato via, o al massimo a restare un fenomeno di nicchia per facoltosi cultori della materia? Oppure era una pietra miliare, il punto di svolta di un brand ricco di tradizione, che ha fondato la fotografia moderna inventando il formato compatto, e che ora si proiettava con forza nel futuro?
Oggi sappiamo che la risposta giusta è “la seconda che hai detto”.
Il lancio odierno della nuova Leica M11 (su cui trovate un pezzo per Italian Tech a fine post), conferma che l’azienda tedesca ha saputo cambiare il passo ed evolversi senza rinunciare a se stessa. Come già prima di lei la serie SL e Q, ora la nuova M11 trova la sintesi tra tradizione e innovazione. Nell’aspetto, tutto si richiama alla serie M, rivendicando un legame di parentela diretta soprattutto con le sue incarnazioni più recenti e digitali. Nella sostanza, abbondano invece le novità e soluzioni tecnologiche (alcune addirittura inedite per il mondo della fotografia tradizionale) che proiettano la nuova nata nel futuro della fotografia d’autore.
Quando prima di Natale ho intervistato stefano Spaggiari, co-fondatore ed executive chairman di Expert.ai, a colpirmi è stata soprattutto una frase che ha detto a metà della conversazione, la stessa con cui ho scelto di aprire il pezzo che trovate linkato a fine pagina.
Dice Spaggiari: «Noi siamo un’estensione delle persone. La nostra tecnologia è come un esoscheletro cognitivo che moltiplica le capacità, mentre al comando resta l’essere umano». Nello specifico, l’AD si riferisce alla tecnologia di Natural Language Processing sviluppata dalla sua azienda con un approccio ibrido, cioè che unisce machine learning e analisi semantica, e che aiuta a estrarre senso da enormi quantità di informazioni, ma credo che la definizione possa essere utilizzata con un’accezione molto più ampia.
Viviamo in un momento delicato: l’insieme di tecnologie e soluzioni che raccogliamo sotto il generico (e impreciso) cappello di Intelligenza Artificiale stanno permeando pressoché ogni tecnologia in ogni settore dell’attività umana, dove in molti casi già prendono decisioni e fanno scelte al posto nostro in modi spesso impossibili da verificare (tanto che le chiamiamo “scatole nere”).
È dunque ora, oggi che si fa più pressante la necessità di definire con chiarezza il ruolo che l’essere umano dovrà avere nella società del futuro, che come ci dice l’Unione Europea sarà sì hitech, ma dovrà essere anche human-centric e sostenibile. Una società in cui l’umanità sarà “aumentata” e non sostituita da un’intelligenza artificiale che deve essere “trustworthy”, “transparent”, “reliable” e soprattutto “explainable”.
E soprattutto, che dovrà diventare proprio “l’esoscheletro cognitivo” di cui parla Spaggiari: la leva tecnologica con cui sollevare e risolvere problemi fino a ieri fuori della nostra portata, ma dai quali ora dipende il nostro futuro come specie.
Qualche giorno fa, durante il CES, ho partecipato a una conferenza stampa online indetta da Stellantis, dove il CEO Carlos Tavares rispondeva alle domande dei giornalisti.
La notizia del giorno era l’accordo pluriennale Tra Stellantis e Amazon, che coinvolge Amazon Devices, Amazon Web Services (AWS) e Amazon Last Mile: le società collaboreranno per implementare la tecnologia e l’esperienza software di Amazon in tutta l’organizzazione di Stellantis e il processo coinvolgerà le fasi di sviluppo del veicolo, la costruzione di esperienze connesse a bordo delle auto, ma anche e soprattutto la formazione della prossima generazione di ingegneri del software automobilistico. (volendo, basta fare click sul link in bio per leggere il pezzo in cui ne parlo sul Corriere)
Essendo lì per il Corriere, avevo la possibilità di fare domande e ho chiesto “Come influisce la nuova partnership con Amazon sulla road map di Stellantis?”, ma anche se e come l’entrata in scena nell’industria automotive di nuovi player come Sony, Amazon e sembra un domani anche Apple influenzi le strategie e la visione del gruppo.
In inglese avevo tradotto il verbo “influenzare” con “ to affect”, e ho avuto l’impressione che la cosa a Tavares non sia piaciuta affatto: «Questa domanda da sola richiederebbe un paio d’ore per rispondere» – ha detto infatti l’AD, che poi ha insistito a lungo sul fatto che Amazon per Stellantis è solo un “abilitatore” della strategia tecnologica e di business, e che l’accordo è estremamente “bilanciato” da un punto di vista finanziario.
Per sottolineare ancore di più l’indipendenza del gruppo dal gigante tech (peraltro dandomi un po’ l’impressione di mettere le mani avanti), Tavares ha poi completato la sua risposta dicendo che «Stiamo diventando una Automotive-Tech Company perché lo abbiamo deciso noi, nessuno ci “influenza”. Andiamo avanti nel mettere in pratica questa strategia, con l’aiuto di vari abilitatori, perché crediamo sia questo il modo di compiere la nostra missione, che è ampliare (Tavares dice “magnify”) la freedom of mobility che offriamo ai nostri clienti».
Al netto della posizione espressa con forza dll’AD, che comunque è rivoluzionaria se solo si pensa a cos’erano FCA e PSA prima di fondersi in Stellantis meno di un anno fa, c’è una cosa importante da rilevare: la partnership con Amazon, rinnovata e sensibilmente ampliata, conferma ancora una volta che, nei prossimi anni, sarà il software e non l’hardware al centro della competizione tra costruttori di automobili.
A superare sano e salvo la rivoluzione in corso sarà solo chi avrà saputo cambiare radicalmente il proprio core business e aggiornare le proprie competenze, disegnando al contempo nuove alleanze e stabilendo nuovi equilibri con player provenienti da altre industrie, prima fra tutte quella del tech.
Se qualcuno dovesse chiedermi quale sia l’innovazione più inattesa e intrigante vista al CES 2022, non avrei difficoltà a rispondere “Il trattore autonomo John Deere 8R”.
Un gigante da 18 tonnellate che se ne scorrazza tranquillo lungo gli sterminati campi coltivati americani, grazie a una combinazione tra telecamere stereo (cioè che replicano la visione umana), Intelligenza artificiale, tecnologia GPS, connessione mobile, sistemi per la semina ad alta precisione.
Un pezzo del futuro di un settore, l’agricoltura, ad altissima richiesta di innovazione, sempre in cerca di soluzioni hi-tech orientate a risolvere tre problemi principali: ridurre la fatica degli agricoltori, aumentare la produttività dei terreni in vista dell’esplosione demografica, ridurre l’impatto ambientale in ogni sua forma.
Quando l’industria automotive, la robotica e il metaverso si incontrano, nasce la Metamobilità. O almeno così dice Hyundai, che al CES di Las Vegas ha svelato la sua strategia intitolata “Expanding Human Reach”, dove la robotica agirà come mezzo per collegare il mondo virtuale e quello reale, plasmando e trasformando la mobilità del futuro in ogni sua accezione. Compresa quella degli oggetti, per cui Hyundai ha coniato la definizione Mobility of Things (MoT).
L’idea, almeno sulla carta è molto interessante: in un mondo iperconnesso, i robot potrebbero dunque diventare i nostri avatar nel mondo fisico, da guidare a distanza ovunque ci troviamo, una volta entrati nel Metaverso. Facciamo un esempio: vi trovate in viaggio, lontano dalla vostra casa, ma dovete dare da mangiare al gatto; nella visione di Hyundai, un domani potrete accedere a una perfetta copia digitale della vostra casa nel metaverso, dove prendere il controllo di un robot capace nutrire e abbracciare il vostro animale domestico, magari dall’altra parte del mondo.
E se tutto questo può già sembrare incredibile, non è che l’inizio: Hyundai ha infatti presentato anche le sue piattaforme modulari Plug & Drive (PnD che) e Drive & Lift (DnL), soluzioni all-in-one per la Mobility of Things (MoT), che utilizzano sensori LiDar e telecamere per leggere l’ambiente e muoversi in esso. Insieme, esse possono essere utilizzate per rendere mobili (e quindi anche comandabili a distanza tramite il Metaverso) oggetti normalmente inanimati, dai piccoli manufatti, ai mobili.
Hyundai immagina che queste soluzioni vengano utilizzate in futuro ad esempio per agevolare il movimento delle persone con disabilità, per automatizzare la logistica, persino per creare spazi interni riconfigurabili (ad esempio con mobili e sedie che si muovono e spostano per soddisfare ogni necessità).
Non sembra male, e potrebbe essere un uso del Metaverso diverso e molto più utile da quello prospettato da Zuckerberg, che proprio di recente ha riportato in auge questo termine evocando una (per molti versi) agghiacciante versione 3D del suo Facebook.
Staremo a vedere: intanto sarebbe bene che tutti fossimo vigili, il più possibile informati e accorti nell’uso delle nuove tecnologie di cui disponiamo e di quelle che verranno. La tecnologia è uno strumento: a fare la differenza è il modo in cui la mettiamo a frutto, che a sua volta dipende da quali valori ci diamo, quali regole, ma anche e soprattutto da che tipo di società vogliamo diventare, da come ci immaginiamo fra dieci, venti o cinquant’anni.
Sabato mattina ripartiva EtaBeta su Rai Radio1 con una puntata dedicata al CES di Las Vegas: evento che amo, ma che anche quest’anno ho preferito seguire a distanza tramite la piattaforma online ovviamente a causa del Covid-19.
Molti i temi affrontati, con ampio spazio dedicato alla nuova mobilità elettrica e iper tecnologica (ormai questione centrale alla kermesse), alla metàmobilità, al metaverso e, inevitabilmente, ai gadget tech di ogni tipo.
Una buona parte del tempo è stata dedicata anche a rispondere ai molti commenti preoccupati (e un po’ neo-luddisti) ricevuti prima sui social (quando @maxcerof ha annunciato la puntata) e live durante la trasmissione. Commenti peraltro inviati – lo ricordiamo – utilizzando quelle stesse tecnologie che essi hanno voluto criticare.
Domani sarò ospite di Eta Beta (dalle 11.30) per parlare del CES di Las Vegas. Nel presentare su Linkedin la puntata, Massimo Cerofolini inizia scrivendo: “Prepariamoci. Presto avremo una copia virtuale di noi stessi che si muove nei nuovi paesaggi digitali del Metaverso”. I commenti preoccupati che il suo post ha generato, mi hanno spinto a condividere nei commenti le seguenti osservazioni.
…
Nota bene: “prepariamoci”, come scrive Massimo Cerofolini, non significa “alziamo barricate contro il progresso disumanizzante, diamo fuoco ai server dei big tech, scendiamo in piazza contro il Metaverso, e dove andremo a finire signora mia” ecc. ecc, come a qualcuno piacerà sicuramente pensare.
Significa piuttosto “restiamo consapevoli, informati, aggiornati”. Perché il progresso tecnologico è inarrestabile, i cambiamenti arrivano e arriveranno che noi lo si voglia o no, e se davvero vogliamo restare umani, e vogliamo che le innovazioni siano “umano-centriche”, di questo progresso dobbiamo essere parte attiva e consapevole.
La tecnologia in sé non è il problema. Il problema è quali obiettivi ci vogliamo dare come specie, quale futuro vogliamo costruire come umanità. Una volta stabilito questo, insieme, allora ogni strumento, tecnologico e non, potrà essere asservito a perseguire gli obiettivi. Se invece non lo facciamo, allora saranno gli strumenti che usiamo a plasmare noi e la nostra società in modi imprevedibili, e la colpa sarà solo nostra.
La realtà virtuale (il Metaverso a cui consente di accedere), ad esempio, “po esse fero e po esse piuma”, può servire ad espandere le nostre percezioni e – scopriamo dal CES2022 – forse in futuro ci consentirà di gestire robot a distanza come fossero avatar nel mondo fisico. Oppure, al contrario, potrebbe essere utilizzata per isolarci, manipolarci e controllarci come una versione sotto steroidi del 1984 di Orwell.
Quale delle due ipotesi prenderà infine forma, è un problema culturale, sociale e politico, quindi squisitamente nostro. Di tutti. Ed è ora, oggi, che dobbiamo esigere come comunità di poter scegliere, di poter indirizzare l’uso di queste tecnologie (oggi definito da pochi oligarchi miliardari) verso il bene. Prima che sia troppo tardi.
Questa intervista è stata pubblicata in forma ridotta su Wired Magazine n.85 del 2018. La ripropongo oggi, dopo aver citato la posizione di Kasparov in un mio intervento sul futuro dell’Intelligenza artificiale al Rewriters Fest di Eugenia Romanelli, per recuperare le affermazioni del campioni di scacchi, a mio avviso ancora incredibilmente attuali e utili.
Freddo, determinato, implacabile nella logica dei suoi ragionamenti: quando parla, Garri Kasparov guarda fisso negli occhi il suo interlocutore, lo scruta, ne studia movimenti e reazioni, quasi si stesse preparando ad anticiparne le mosse.
Il “più grande campione di scacchi di tutti i tempi” si è ritirato dalle competizioni da anni, ma ogni suo gesto e parola rivelano subito come il nobile gioco sia ancora al centro di un’esistenza unica. Di più: come spiega egli stesso, gli scacchi hanno forgiato il suo carattere e influenzato in maniera determinante la sua visione del mondo, pervasa da una severa e disciplinata oggettività.
Kasparov riconduce alla scacchiera, alle sue regole ferree, agli schemi di gioco che sono al contempo trionfo di logica e creatività, ogni suo ragionamento che così semplifica, scompone e chiarisce. Come quando affronta, nel suo libro intitolato “Deep Thinking”, la questione vitale dell’intelligenza artificiale e di come questa influenzerà il futuro dell’umanità.
E’ uno splendido paradosso: colui che oggi si presenta come “evangelist” dell’IA, vent’anni fa fu protagonista di ciò che passò alla storia come la prima grande sfida tra uomo e macchina. Allora paladino dell’umanità, campione imbattibile da almeno 11 anni, Kasparov sedette alla scacchiera per confrontarsi con Deep Blue, la macchina creata da IBM per batterlo sul suo stesso campo e dimostrare al mondo il proprio potenziale tecnologico.
Tutti ricordano che Kasparov perse la prima partita quel 10 febbraio del 1996, forse perché la stampa internazionale diede al fatto enorme risalto, riconoscendo in esso una pietra miliare nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Pochi sanno invece che il campione di scacchi vinse tre e pareggiò due delle partite seguenti, battendo alla fine Deep Blue per 4 a 2; che gli accordi con IBM gli impedirono di prepararsi agli scontri studiando gli schemi di gioco del suo avversario elettronico; che nella prima partita il sistema si bloccò e dovette essere riavviato diverse volte; che, insomma, le condizioni in cui prese forma la storica sconfitta furono abbastanza “singolari”. E, ancora, che l’anno dopo ci fu una rivincita, dove Kasparov perse definitivamente al meglio delle sei partite contro la versione aggiornata del suo avversario elettronico.
Quel che è certo, è che da quel momento in poi la sua vita non fu più la stessa: dopo il fatale incontro con Deep Blue, Garri restò il più forte di tutti gli umani ancora per diverso tempo, ma quella sonora e inattesa batosta attrasse la sua attenzione sulla rivoluzione tecnologica in corso, facendone negli anni un acuto ed equilibrato osservatore.
La parabola dell’uomo si rispecchia nella struttura dei suoi scritti sull’argomento: il saggio “Deep Thinking” parte infatti dalla rievocazione dello storico match Kasparov – Deep Blue, rivelando retroscena inediti e ribadendo il ruolo che negli anni gli scacchi hanno rivestito come perfetta palestra per l’addestramento delle macchine. Poi la visione si allarga, il punto di vista si innalza, proponendo un approccio originale e inedito alla questione dell’intelligenza artificiale e di come cambierà le nostre vite.
Lucida, oggettiva, forte di una logica incalzante, la visione dell’ex campione di scacchi si pone al centro di ogni ragionamento, dove resta equidistante tanto dal fanatismo entusiasta quanto dal catastrofismo oscurantista. È lì che prende forma, assennata e condivisibile, la “terza via” di Garri Kasparov, secondo il quale «l’IA è semplicemente uno strumento che, come tale, richiede un approccio che non deve essere religioso o estremistico. Ogni tecnologia può aiutare o danneggiare gli essere umani: dipende da ciò che essi decidono di farne».
Da icona dello scontro uomo – macchina a “evangelist” dell’intelligenza artificiale. Quando e perché ha cambiato idea?
«Una delle principali ragioni per cui sono stato campione del mondo di scacchi per vent’anni è che sono sempre rimasto obiettivo. Se vuoi essere il più forte, devi essere bravo a valutare con obiettività la situazione in cui ti trovi. Quando ho perso contro Deep Blue, ovviamente ero arrabbiato e volevo la mia rivincita. Poi però, con il tempo, mi sono reso conto che quello era l’inizio di una nuova era, e che presto le macchine avrebbero conquistato sempre più spazi di utilizzo, quindi non aveva alcun senso opporsi al progresso e combatterle. Senza contare che è proprio grazie agli scacchi, il territorio dove ormai da decenni si allenano le intelligenze artificiali, che ho compreso la verità».
E quale sarebbe?
«Che l’intelligenza artificiale non ci salverà né distruggerà: il futuro dell’umanità dipende dalla collaborazione tra uomo e macchina».
Come deve avvenire questa collaborazione?
«Nel mio ragionamento, che nasce ovviamente osservando la sperimentazione basata sul gioco degli scacchi, quando si mettono assieme un essere umano e un’intelligenza artificiale per farli collaborare, più importante delle rispettive abilità è l’efficienza del processo con cui essi si relazionano. Uno scacchista di medie capacità e una macchina, uniti da un buon processo, sconfiggono sia un computer più forte di entrambi, sia un campione di scacchi in coppia con un supercomputer quando questi collaborano in virtù di un processo meno efficiente».
È la cosiddetta “Legge di Kasparov”…
«Il senso è questo: perché la collaborazione uomo – macchina abbia successo, la persona coinvolta non deve necessariamente essere un campione, ma deve essere colui che possiede le competenze specifiche necessarie a compensare le mancanze nella macchina in quel dato momento, cosa che varia a seconda del settore in cui si opera, del contesto e del compito specifico da eseguire. Le intelligenze artificiali non saranno mai indipendenti al cento per cento, lasciando sempre lo spazio necessario agli esseri umani per avere un ruolo fondamentale: fare le domande giuste, creare framework efficienti nonché definire compiti e gli obiettivi».
Da come la descrive, il talento umano sembra quasi essere un ostacolo all’interazione tra uomo e IA.
«Quello che serve è una profonda comprensione dei propri limiti oltre che dei propri pregi, tale da evitare una inutile competizione con la macchina o, peggio, la sovrapposizione tra le diverse capacità. È una grande occasione per liberare la nostra creatività: lasciando alla macchina altri compiti che sa fare meglio di noi, possiamo liberare il nostro potenziale e guardare oltre».
Quindi non dobbiamo temere le macchine?
«Ciò che ci aspetta può apparire spaventoso o estremamente affascinante: per me è semplicemente fantastico, perché credo che le IA potranno aiutarci a realizzare i nostri sogni più ambiziosi. Lo faranno liberandoci da compiti gravosi e ripetitivi mentre immaginiamo e progettiamo cose più grandi. O, ancora, consentendoci di riprendere in mano imprese come l’esplorazione spaziale, che avevamo abbandonato perché troppo rischiose».
Questo vale anche per le aziende?
«Qualsiasi impresa che sappia e voglia guardare al futuro non può fare a meno di includere soluzioni basate su IA nella nella propria strategia. Quale che sia il settore industriale in cui essa opera, le opportunità di crescita ed evoluzione sono illimitate».
E le sembra che i manager comprendano questa necessità?
«Non ancora, ma capisco il loro disorientamento: negli ultimi anni si sono moltiplicati i messaggi distopici che parlano di un futuro dove le macchine ci minacciano e attentano alla nostra vita, influenzandone il giudizio. Per me la questione è molto semplice: l’intelligenza artificiale non è la salvezza o la soluzione a tutti i nostri problemi, né il vaso di Pandora scoperchiando il quale scateneremo la fine dei giorni. È solo ciò che sapremo farne».
Fin dove pensa che si spingerà questa collaborazione che descrive tra uomo e macchina? Alla fine ci fonderemo con esse come sostengono alcuni?
«Già oggi, la robotica con le sue protesi e i trend della ricerca scientifica ci suggeriscono che un giorno potremmo essere in grado di aumentare le nostre abilità fisiche grazie alle macchine. Credo che ciò che ci rende umani non potrà essere mai replicato, perché non abbiamo compreso come funziona il cervello umano, ma mi sento di accogliere con favore tutto ciò che ci renderà più forti, più veloci e più capaci di fare quello che l’umanità sa fare meglio, cioè continuare a esplorare ed espandersi, magari proprio nello spazio».