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Addio a Piero Angela

Umberto Eco e Piero Angela

La mia generazione è la prima che ha imparato più parole dalla televisione che dai propri genitori; che – almeno nei primi anni di vita – ha appreso più informazioni dai documentari in tv che dai libri di scuola.

La mia generazione è cresciuta imparando di natura, spazio, energia nucleare, deserti, biologia molecolare (e qualsiasi altra cosa vi possa venire in mente) soprattutto dalla viva voce di Piero Angela, che solo pochi giorni fa festeggiava il suo “personale giubileo” con 70 anni di carriera in Rai (tanti quanti la regina Elisabetta ne ha passati con la corona in testa).

E che oggi ci lascia, a 93 anni, portandosi dietro nel suo ultimo viaggio la mia immensa gratitudine per la conoscenza che ha diffuso, per la classe e umiltà con cui ha fatto informazione di alto livello, e per aver mantenuto vivo il ruolo di servizio pubblico della Rai.

Ho ritrovato in archivio questa foto, dove è fuori fuoco e quasi etereo, impalpabile. È in secondo piano dietro Umberto Eco, altro gigante e primo soggetto di un ritratto scattato al festival della Comunicazione di Camogli del 2015. Insieme, rappresentano due modi diversi e complementari di produrre e diffondere conoscenza che forse non esistono più, ma di cui abbiamo ancora immenso bisogno.

#pieroangela

Riconoscere la forma del gelo

È possibile “vedere” il gelo? Riconoscerne la forma, distinguerne i contorni come se fosse un luogo familiare, oppure il volto di un amore perduto? E che forma hanno il vento freddo e la neve che esso solleva, sferza e tortura ora in questa, ora in quella direzione?

Qui in Lapponia dove sono adesso, a nord di tutto ciò che per me significava Nord, nel buio e nel silenzio di una notte a 15 gradi sotto zero, io quella forma la vedo, la avverto mutare mentre letale mi avvolge, cancella i miei sensi, mi annienta. Del resto, ho solo la camicia addosso, ma avevo bisogno di capire. Di sentire. Di sapere.

Se allungo il braccio, se tendo la mano e le dita, le sento attraversare qualcosa di denso, tangibile, concretamente reale. Lo vedo il freddo, ma posso anche toccarlo, almeno finché non inizia a strappare via il tatto dalle dita nude, improvvisamente anchilosate e inutili.

E poi lo sento, il freddo, quando si rivolge a me assordandomi con un silenzio sovrumano, insostenibile, immobilizzante. Un vuoto senza appello in cui si riesce solo a sentirsi vivere. Finché dura. Mentre scorrono i secondi.

È notte. Tutto è fermo. Congelato, è il caso di dire. È notte, tutto è freddo, inerte, bellissimo.

Finalmente, qualcosa che so riconoscere, che parla la mia stessa lingua, a cui abbandonarmi senza remore.

La luna intanto mi guarda. Luminosa, sembra quasi sorridere.
freddo

Via da Las Vegas

Il fumo si alza a piccole volute. Dal basso, da una sigaretta di cui ormai resta quasi solo il filtro. Appesa alle dita di una mano, la sinistra, che ondeggia nel vuoto, quasi come appartenesse a un altro corpo.

La destra invece resta aggrappata alla grande leva, come fosse l’estremo lembo di terra prima del precipizio. L’ultima speranza a cui aggrapparsi. L’illusione del cambiamento, della risoluzione improvvisa di ogni problema, dello scioglimento di ogni dolore.
Di fronte, un’enorme slot machine, una montagna di luci, colori e suoni che ipnotizza, ottunde, stupisce. Che promette denaro senza mai darne. Suggerisce un futuro che non si avvera.

Un dollaro dopo l’altro, la donna strattona la leva come si fa con chi non vuole sentire ragioni, comprendere o perdonare. Fissa lo schermo enorme di fronte a sé con occhi vuoti, oltre speranza e disperazione, accecati dall’abitudine. Pieni di sonno.

Sono le quattro del mattino. L’odore acre della moquette vecchia e lisa, sempre la stessa ovunque nei casinò di tutta la città, ti raschia in gola insieme con l’odore rancido delle sigarette spente. “What happens in Vegas, stays in Vegas”, si dice. Così, nella nazione dove in strada non si può fumare ma ci si può ubriacare a patto che si nasconda la bottiglia in una busta, nei casinò tutto è permesso. Tranne forse vincere davvero.

Seduto in angolo, osservo la scena: ho cambiato albergo per le ultime due notti da trascorrere nella città durante il CES, e ho imparato a mie spese perché tutto sommato costasse poco. Allo stesso tempo dignitoso e decadente, tutto sommato pulito e frequentato persino da famiglie con bimbi piccoli, con le sue slot machine, le inservienti sfatte eppure semi scoperte, le camere da pensione vestita a festa e il bagno da Bates Motel: in ogni minimo dettaglio, l’albergo che ho scelto rappresenta in pieno questa città senza senso strappata al deserto, nata per ospitare il gioco d’azzardo, avvolta nella disperazione mascherata da sogno americano.

Terra di nessuno, sede di un carnevale permanente e insostenibile, è simbolo del capovolgimento, del sovvertimento dei valori, dell’abbandono temporaneo e liberatorio di ogni regola e convenzione. Terra fertile per ogni eccesso a cui abbandonarsi prima di tornare in sé e rigenerarsi, rientrare nella vita di tutti i giorni, riprendere il proprio viaggio.

Insonne, devastato dal jet-lag, dall’intervistare e scrivere, dall’interminabile vagabondare per la fiera dell’elettronica di consumo più grande al mondo, osservo la varia umanità che gioca imperterrita con l’approssimarsi dell’alba, vestita nei modi più improbabili e variopinti, mentre si atteggia come chi è nel bel mezzo del big party, si sente larger than life, è a un passo dai big money. Sembra un film di Tarantino.

Fuori una luna piena, fredda e spietata, si erge alta sul deserto del Nevada, sulle finte Statue delle Libertà e Torri Eiffel, sui giochi d’acqua a tempo di musica, e sugli innumerevoli homeless nelle strade, dove puoi trovarli in cerca di riparo e monetine quasi dietro ogni angolo.

Cammino nel freddo con in bocca un sapore amaro, metallico. Me lo lascia il contrasto tra questa povertà assoluta, priva di qualsiasi speranza, e la grandeur fatta di colori accecanti.

Sono le sei del mattino, ormai si fa giorno ed io alla fine capisco: Las Vegas non è altro che un purgatorio dove ognuno vive una diversa espiazione. Un non luogo dove si paga per tutto, anche per soffrire.

Il sogno americano da quale non riusciamo più a svegliarci.

Barcellona mon amour

Stanco, nella sera inoltrata, mi abbandono sul sedile di un autobus. La fila per i taxi richiedeva una pazienza che ora mi manca, ammesso che l’abbia mai avuta. Meglio il mezzo pubblico, peraltro nuovo di zecca. Così ho tempo e modo di guardarmi intorno.

IMG_2246Barcellona di notte conferma l’impressione del giorno: è splendida. Una fermata alla volta, mi godo il suo continuo mutare forma con ancora in testa l’apparizione di San Mark Zuckerberg, patrono delle nostre paturnie digitali, al super evento Samsung.

Barcellona è strana. Memore del mio ultimo, frustrante passaggio durato appena 8 ore (tanto il budget della Rai ci aveva consentito), oggi sono uscito a scoprirla correndo. Anche troppo, visto che sono andato ben oltre i miei attuali, patetici limiti.

Alcune strade sembravano quelle di milano, altre, più spesso, di Torino. I vicoli poi, fanno pensare a Genova, alla sua città vecchia come doveva essere in tempi migliori, ma anche a Napoli, se a Napoli fosse stata risparmiata la sua interminabile agonia.

C’è tanto qui, di tante cose. Gli odori sono diversi. Quello sì. Che si mangia bene si capisce subito. Che i sapori sono forti te lo annuncia il naso. Non ti puoi sbagliare.

Il bus trotterella su una strada peraltro perfetta, accanto a marciapiedi puliti, facendo a gara con il tram, in un posto dove tutto, anche il porto, dà un’idea di pulizia, ordine, di rispetto. E perché no? Di orgoglio.

Qui se ne vede tanto, negli occhi delle persone come nei cartelli multilingue, a ricordare sempre che qui si parla catalano, che c’è una storia diversa da raccontare. Che la politica, la geografia e persino la storia non bastano a cambiare la testa delle persone. Tanto meno il loro cuore.

Eh.

Siedo e scrivo, e guardo, e scrivo. È febbraio e ho su solo la camicia. Scendo alla fermata davanti alla Casa Batlló di Gaudí. Mi fermo a guardarla per un minuto intero. Sorrido.

Domani è un altro giorno.

Cinque lettere

Inizia con una resa. Finisce con una resa. Opposte evidenze. Identica impotenza. Quando arriva ti coglie alle spalle, impreparato. Non puoi che accettarlo. Senza farti domande. Tanto non ne hai bisogno. Tanto non ti interessa.

Quando svanisce ti pugnala, sempre alle spalle. Lasciandoti ugualmente impreparato. E qui di domande ne avresti. Anche troppe. Ma sono altrettanto inutili. Tanto non c’è risposta che tenga.

Gli estremi si assomigliano sempre, arrivano quasi a toccarsi. E qui più che altrove si ripete una simmetria quasi perfetta.

Se A è uguale a B e B è uguale ad A, a fare la differenza è la distanza che li separa. Cosa si trova e cosa si perde lungo un tragitto durato quanto. Chi avevi di fronte. Il senso di quell’incontro. Come hai vissuto quel percorso. Cosa hai fatto e cosa ti è stato fatto. Quanto hai dato e ricevuto. Quanto hai concesso del tuo vero io e quanto ti è stato concesso.

Per breve o lungo che sia, quel tragitto tra estremi identici conta più di tutto. Ti parla del mondo, di te, di chi sei e di cosa vuoi. E di chi hai di fronte. Rivela tutto.

Puoi avere fortuna, oppure non averne. Può esserne valsa la pena o rivelarsi tempo sprecato, ma di solito quel viaggio dovevi farlo e hai fatto bene a partire, anche perché tutto sommato non avevi troppa scelta.

Di solito.

Tornare a casa

IMG_9277Salita, che toglie il respiro, per fatica e per bellezza. Vento, a ridare forza, a riempire i polmoni, a spingere coraggio.

Il cielo, azzurro, incornicia mura senza tempo, la loro storia. Presente infinito fatto di gesti semplici, sapori e odori familiari. Ricordi.

Dentro, il tempo si ferma. Dentro c’è il tempo per pensare. Alzarsi in volo sopra le cose, vederle per quello che sono, rinunciare a ciò che vorresti fossero. Lasciar andare.

Dentro, una sedia per me c’è sempre. C’è sempre il vino forte, che sembra vento, a spazzare il male. A dare gioia, allentare la morsa. A schiarire. Che è così da sempre. Che così va bene.

La prima volta fu 22 anni fa. La prima di tante. Tante vite fa scoprivo Civita di Bagnoregio. Le ho attraversate tutte. Ne porto ancora segni. Alcuni più freschi di altri. Che io capisco tardi, ma capisco.

Le ho attraversate tutte, e ho continuato a tornare. A chiamare “casa” questo posto. Magari anche portandoci le persone sbagliate. Di certo imparando qualcosa.

“Casa” è dove ti senti in pace. Dove tutte le cose ritrovano il loro posto nella testa. Dove finalmente riesci a vedere, a pesare, ad accettare cosa hai trovato e cosa hai perso. Dove ritorni intero senza provare rancore, perdonando coloro che non potevano evitare di fare quello che hanno fatto.

A me succede qui. Ormai da vent’anni. E va bene così.

La conquista di un ritratto

IMG_0866All’inizio i ritratti li rubavo. Li cacciavo a distanza con il tele più spinto che ero riuscito a trovare, neanche fossi nella Savana a fare un Safari. La gente era se stessa, sì. Era spontanea, certo. Ma era perché non mi vedeva. Perché non esistevo.

Non ero un fotografo. Ero un ladro.

Poi ho scoperto il 50mm. “È la fotografia stessa”, qualcuno mi ha detto a un certo punto. Forse proprio Berengo Gardin a Wetzlar. Ed è stato allora che sono dovuto uscire allo scoperto.

Se vuoi un ritratto, devi andartelo a prendere. Trovare la persona e convincerla è solo l’inizio. La parte difficile è conquistarla. Superare barriere, insicurezze, pregiudizi, pudori. Anche solo per un attimo. Giusto il tempo per tre scatti in fila. Quelli giusti. Quelli che sorprendono il soggetto indifeso, inerme in tutta la sua bellezza.

La “conquista” di un ritratto è un processo inebriante, toccante, intimo. A volte dura un attimo, perché tutto funziona subito. A volte richiede negoziazione, gioco delle parti, persuasione, tattiche di distrazione, buffonate. In ogni caso richiede trust: la creazione di un legame di fiducia tanto temporaneo quanto profondo. Nessuno si arrende senza condizioni. Tutti vogliono qualcosa in cambio.

Io sul piatto ho da mettere due cose: il desiderio di raccontare tutto quello che fotografo con rispetto; la ricerca della bellezza più o meno nascosta in ognuno di noi.

Ogni ritratto figlio di una conquista “frontale”, scattato a un metro e mezzo di distanza, mi insegna qualcosa su di me, su chi ho davanti, sulle persone in generale. Informazioni e sensazioni che poi reinvesto nella foto successiva, nell’intero processo, migliorandolo.

Ho ancora molto da imparare, ma una cosa l’ho capita: se sai far ridere, è vincere facile. Con la battuta giusta, lo sguardo più teso o l’espressione più dura si sciolgono come neve al sole. E da sotto spunta quasi sempre la primavera di un sorriso. O la forza contagiosa di una risata. Si mostra per un attimo poi inizia a svanire, mentre l’espressione torna rapidamente seria.

Quello, e solo quello, è l’attimo giusto in cui scattare. Un attimo prima che torni l’inverno, alla fine di una calda risata piena di bellezza.

Stringersi

Dita, aperte e tese a prendere. Braccia, lente si distendono, a cercare per accogliere. Il buio rivela ciò che la luce ha nascosto. Trovarsi. Di nuovo. Muscoli tesi, a stringere, trattenere, raccontare. Il respiro si ferma. Il tempo si arrende. Il cuore si calma.

A volte basta un solo abbraccio.

Ascoltarli crescere

Immobili. Il respiro lento, regolare, profumato. Immobili e leggeri, le loro mani nelle mie. Piccole, fragili, perfette.

Dormono. Venuti dal nulla, hanno preso tutto, riempito di senso lo spazio e il tempo. Gli piace rannicchiarsi e incunearsi nei mie fianchi, che di dormire non se ne parla, che per riposare ci sarà tempo.

Nel silenzio, sembra quasi di sentirli crescere. Già, crescere. Diventare adulti. Affrontare l’imprevedibile, cambiare mille volte, conoscere il mondo, corrompersi, essere umani.

Pagarne il prezzo.

Vorrei proteggerli. Dalla mia imperfezione, da se stessi, da tutto il resto. Vorrei evitare loro ogni inutile sofferenza, il tempo sprecato, i vicoli ciechi, gli amori insensati, le scelte senza ritorno.

So che non posso, che non ha senso anche solo pensarlo.

Li stringo forte a me, che quasi si svegliano. Che sono ancora bimbi. Che sono ancora miei.

Ancora per un po’.