
Riconoscere la forma del gelo

Il fumo si alza a piccole volute. Dal basso, da una sigaretta di cui ormai resta quasi solo il filtro. Appesa alle dita di una mano, la sinistra, che ondeggia nel vuoto, quasi come appartenesse a un altro corpo.
La destra invece resta aggrappata alla grande leva, come fosse l’estremo lembo di terra prima del precipizio. L’ultima speranza a cui aggrapparsi. L’illusione del cambiamento, della risoluzione improvvisa di ogni problema, dello scioglimento di ogni dolore.
Di fronte, un’enorme slot machine, una montagna di luci, colori e suoni che ipnotizza, ottunde, stupisce. Che promette denaro senza mai darne. Suggerisce un futuro che non si avvera.
Un dollaro dopo l’altro, la donna strattona la leva come si fa con chi non vuole sentire ragioni, comprendere o perdonare. Fissa lo schermo enorme di fronte a sé con occhi vuoti, oltre speranza e disperazione, accecati dall’abitudine. Pieni di sonno.
Sono le quattro del mattino. L’odore acre della moquette vecchia e lisa, sempre la stessa ovunque nei casinò di tutta la città, ti raschia in gola insieme con l’odore rancido delle sigarette spente. “What happens in Vegas, stays in Vegas”, si dice. Così, nella nazione dove in strada non si può fumare ma ci si può ubriacare a patto che si nasconda la bottiglia in una busta, nei casinò tutto è permesso. Tranne forse vincere davvero.
Seduto in angolo, osservo la scena: ho cambiato albergo per le ultime due notti da trascorrere nella città durante il CES, e ho imparato a mie spese perché tutto sommato costasse poco. Allo stesso tempo dignitoso e decadente, tutto sommato pulito e frequentato persino da famiglie con bimbi piccoli, con le sue slot machine, le inservienti sfatte eppure semi scoperte, le camere da pensione vestita a festa e il bagno da Bates Motel: in ogni minimo dettaglio, l’albergo che ho scelto rappresenta in pieno questa città senza senso strappata al deserto, nata per ospitare il gioco d’azzardo, avvolta nella disperazione mascherata da sogno americano.
Terra di nessuno, sede di un carnevale permanente e insostenibile, è simbolo del capovolgimento, del sovvertimento dei valori, dell’abbandono temporaneo e liberatorio di ogni regola e convenzione. Terra fertile per ogni eccesso a cui abbandonarsi prima di tornare in sé e rigenerarsi, rientrare nella vita di tutti i giorni, riprendere il proprio viaggio.
Insonne, devastato dal jet-lag, dall’intervistare e scrivere, dall’interminabile vagabondare per la fiera dell’elettronica di consumo più grande al mondo, osservo la varia umanità che gioca imperterrita con l’approssimarsi dell’alba, vestita nei modi più improbabili e variopinti, mentre si atteggia come chi è nel bel mezzo del big party, si sente larger than life, è a un passo dai big money. Sembra un film di Tarantino.
Fuori una luna piena, fredda e spietata, si erge alta sul deserto del Nevada, sulle finte Statue delle Libertà e Torri Eiffel, sui giochi d’acqua a tempo di musica, e sugli innumerevoli homeless nelle strade, dove puoi trovarli in cerca di riparo e monetine quasi dietro ogni angolo.
Cammino nel freddo con in bocca un sapore amaro, metallico. Me lo lascia il contrasto tra questa povertà assoluta, priva di qualsiasi speranza, e la grandeur fatta di colori accecanti.
Sono le sei del mattino, ormai si fa giorno ed io alla fine capisco: Las Vegas non è altro che un purgatorio dove ognuno vive una diversa espiazione. Un non luogo dove si paga per tutto, anche per soffrire.
Il sogno americano da quale non riusciamo più a svegliarci.
È stata una lunga settimana di un lungo mese di un lungo anno. Arrivo a casa, mi siedo e inizio a tirare un sospiro di sollievo che però mi si strozza in gola. Le mani dentro lo zaino, mi accorgo che non ho con me il MacBook Pro.
Ci vuole qualche secondo e poi capisco: l’ho lasciato sul treno dal quale sono appena sceso alla fine di una lunga giornata di una lunga settimana di un lungo anno.
Chiamo l’assistenza di Italo per €0,15 alla risposta e €1,50 al minuto. Mi dicono che non possono far nulla, che non possono chiamare il capotreno, che possono solo segnalare lo smarrimento al personale della stazione di Milano verso la quale – sostiene la tizia del call center – è diretto il treno da cui sono sceso.
5 euro per darmela in tasca.
C’era una cena e decido di andarci. Mentre sono in macchina per raggiungere il locale, provo a richiamare Italo e a perorare la mia causa spiegando che sono un giornalista, che dentro il computer ho anche cose preziose che mi servono. Nulla, non si può fare nulla.
6 Euro.
Arrivo davanti al locale e mi viene l’idea di guardare sulla app di Italo per vedere a che punto è quello da cui sono sceso. È così che scopro che il treno non è mai ripartito ma è rimasto in stazione. Richiamo Italo per avere conferma.
4 euro. Credito esaurito.
Impreco con decisione, mollo tutto e parto in direzione di Termini. Mollo la macchina a metà strada e ci arrivo in metro. Ovviamente non c’è nessuno di Italo. Chiedo a chiunque incontri ma nessuno sa nulla. Il personale di Italo, che siano controllori o addetti alle pulizie, sembra non esistere o nessuno sa dove si nasconda.
Qualcuno mi segnala una saletta lontanissima che raggiungo senza trovare nessuno. Mentre me ne torno assaporando la sconfitta mi viene un’idea: ci dovrà pur essere un treno di Italo che sta arrivando a quest’ora a Termini, no? Lì ci saranno capotreni e addetti alle pulizie a cui chiedere.
Aspetto. Si fanno le 23 e 30 e vedo il treno arrivare da lontano. Credevo fosse l’ultimo. Sono al binario 18. All’improvviso mi rendo conto che ne è arrivato anche un altro senza che me ne accorgessi. Al binario 1.
“Ma li mortacci…”
Inizio a correre. Non so perché, visto che a questo punto uno dovrebbe valere l’altro. Ma inizio a correre lo stesso. Corro verso il binario 1. Quando arrivo ci saranno mille persone che mi vengono tutte incontro, insieme, tipo falange armata di trolley. Giro la curva senza rallentare scivolando tra la gente e vedo da lontano due ragazzi con le maglie di Italo.
Mentre gli corro incontro vedo che si salutano e uno viene verso di me. Lo lascio passare pensando che non posso tormentarlo a quest’ora e mi dirigo deciso verso l’altro che intanto sta risalendo lungo il treno.
È lontano e rischio di farmelo scappare. Ho le Clark, mi torturano ma corro lo stesso per raggiungerlo prima che sparisca. Corro. Mi sbraccio. lo chiamo. Corro più veloce. Quasi lo raggiungo quando finalmente lui mi sente. Si gira. Con il fiatone, piegato in avanti, sudato fradicio provo a dirgli “senta mi scusi ho lasciato il mio computer sopra il tre…”
“Ma quale il MacBook? Ce l’ho io qui in borsa!”
È stata una lunga settimana di un lungo mese di un lungo anno, e ora io me ne vado a casa.
“Io nel vedere quest’uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l’amore”
Il caso non esiste, nulla accade per caso. Così non mi stupisce che il primo disco che abbia ascoltato in vita mia, contenga una delle canzoni per me più importanti in assoluto – il testamento di Tito – la quale si chiude con una strofa potente, semplice eppure immensa, che ben riassume il senso finale, conclusivo, della relazione con mio padre. Nè mi stupisce il fatto che fu proprio Faber, dopo un’intervista, a regalargli quel vinile che ho consumato e che ancora ricordo interamente a memoria.
Non mi stupisce, ovviamente, perché il caso non esiste.
«Il nostro essere in rete ci impone di riflettere con più attenzione sui modi di raccontarci e rende questo racconto sempre più strategico, sempre più orientato alla promozione di sé. Anzi, oggi c’è una sorta di concezione imprenditoriale del Sé: emerge quello che possiamo definire un Sé neo-liberale, un modo di trattare la propria identità come se fosse un capitale da investire e far fruttare»
Intervistare Giovanni Boccia Artieri è sempre un’affascinante esperienza formativa.
Il resto dell’intervista, lo trovate qui
A novembre sono stato inviato da Wired a Madrid per partecipare insieme ad altri 18 fotografi al contest organizzato da Toyota per il lancio della nuova C-HR. Il brief era mettere insieme l’auto, la città e il tema delle Reflections.
Alla fine sono rientrato nella selezione definitiva grazie alla foto qui sotto, che ora figura in sito dedicato ma che dal primo febbraio sarà esposta a Parigi.
“From 1 February, the selection of 24 photographs will be exhibited at Le Rendez-Vous Toyota, Toyota’s European showroom on Champs Elysées in Paris (France), together with the Toyota C-HR”.
Poteva andare peggio.
Anche quest’anno, per la terza edizione consecutiva, torna #thewholepic per contribuire alla grande narrazione della corazzata #IJF16. Intanto un assaggio delle edizioni passate.
Ci vediamo in giro
– sulla gallery ufficiale del Festival Internazionale del Giornalismo: http://exhibitions.journalismfestival.com/gallery-the-whole-picture
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Ripenso spesso ad Amleto, alla sua immagine tormentata così come ce l’ha tramandata il genio di Shakespeare (lui o chi per lui, nel caso fosse vero che non sia mai esistito). Alla Tragedia con la T maiuscola, di cui il principe danese è uno dei simboli più potenti e conosciuti.
Ci ripenso perché è netto il ricordo di quando, sui banchi dell’università, venni folgorato da una rivelazione (o forse dovrei dire Epifania, visto che al tempo studiavo anche il personaggio di Gabriel Conroy):
Amleto è stato il primo uomo moderno.
Mi spiego: l’Amleto è la “tragedia dell’inazione” per eccellenza. Le cose accadono, le persone ci restano secche, monta la piena verso un finale tragico e (spoiler) alla fine muoiono tutti (tranne Orazio, che deve raccontare la storia), solo perché Amleto non fa ciò che deve fare: uccidere lo zio traditore, assassino e usurpatore del trono, sbattere la madre in convento, prendersi ciò che suo. Regnare. Essere felice.
Proprio non riesce a decidersi. Proprio non ce la fa.
All’inizio della storia, lo spettro del padre gli svela la verità e dice chiaro e tondo cosa deve fare. Ma lui non è convinto. No che non lo è. E la colpa non è neanche sua. Piuttosto è della scienza, del progresso, della filosofia, e più in generale della conoscenza. Di come queste cose possano opprimere un intelletto raffinato e sensibile, imprigionarlo invece di liberarlo, trasformarsi in una gabbia dorata dove dolersi e affliggersi fino a consumarsi, mentre intorno il fluire del tempo come un fiume in piena travolge cose e persone.
Certo, un uomo moderno non può credere a un fantasma. Non scherziamo. Però il dubbio ti viene. E magari allora indaghi, così come fa Amleto. Il problema è che le prove, anche quando ci sono, non gli bastano mai. Un’evidenza dopo l’altra, a un certo punto la verità appare in tutta la sua violenta banalità. Cui dovrebbe seguire una reazione altrettanto banale e violenta.
Macché: anche quando sa cosa deve fare, Amleto non impugna la spada e macella chi deve macellare, pensando a se stesso e al suo bene. Piuttosto organizza una recita a palazzo (peraltro regalandoci un esempio affascinante di meta-teatro che levati). Poi osserva, poi dubita. Poi si lancia in monologhi che sono belli sì, che fanno i capolavori della letteratura, ok, ma che sono anche una pietra miliare nella storia di:
Chiaro ora cosa intendo per uomo moderno? Immaginate oggi quanti like su Facebook avrebbero rimediato.
Del resto, il paragone con la realtà non fa che accentuare l’inadeguatezza di questo essere umano sensibile e sofferente, la dolente piaga della sua modernità. Come mi dissero a lezione, la storia di Amleto è tratta da quella di un vero principe Danese, si svolge (credo) nel XII secolo, ed è molto più semplice: scoperto il “gomblotto”, il vero Amleto fa fuori lo zio, neutralizza la madre e prende il potere in men che non si dica. Figlia di un altro tempo, immersa in un mondo dove non si andava tanto per il sottile, quella tragedia vera si era insomma risolta rapidamente con un “occhio per occhio”, probabilmente a colpi d’ascia (o almeno così mi piace immaginare).
Ma Shakespeare ha un altro messaggio da trasmettere: l’onda lunga dello stupore causato dalla scoperta delle Americhe e, con esse, di un mondo ben più vasto del previsto – per di più tondo e neanche più al centro dell’universo – nel 1600 non si è affatto esaurita. Anzi, dopo un secolo è ancora lì a sconquassare la fiducia dell’uomo nella propria capacita di conoscere e interpretare la realtà, ne evidenzia i limiti, risveglia paure ancestrali. Perché “ci sono più cose in cielo e terra di quante se ne sogni la Filosofia” di Orazio. E perché “il tempo è fuori di sesto”, e siamo un po’ tutti del gatto.
L’episteme stesso in cui vive e agisce Shakespeare trasuda angoscia. Anni bui di oscurantismo sono all’orizzonte in Inghilterra. Tutto questo va raccontato, non tanto e non solo con la precisione e puntualità che è propria della Storia, ma piuttosto usando la finzione. Recuperando un personaggio realmente esistito, reinventando la sua storia e, di fatto, misurando lo sgomento di un’intera epoca proprio con la distanza che separa la realtà dalla fantasia, l’Amleto vero da quello che possiamo considerare il primo di noi uomini moderni.
Duro ma giusto, Shakespeare getta senza pietà il povero principe danese in una gabbia: quella del suo stesso intelletto, dove dubbi, tentennamenti e incertezze sono sbarre chi gli si stringono addosso fino a sopraffarlo. E lo fa per evidenziare un problema, descrivere lo sgomento di un’intera epoca. Ma anche per lanciare un monito a tutti, ovunque e in ogni tempo, che sintetizzerei così:
Bella zì, ma le chiacchiere stanno a zero: se al pensiero non segue l’azione, alla fine tutto ciò che resta è silenzio.
Stanco, nella sera inoltrata, mi abbandono sul sedile di un autobus. La fila per i taxi richiedeva una pazienza che ora mi manca, ammesso che l’abbia mai avuta. Meglio il mezzo pubblico, peraltro nuovo di zecca. Così ho tempo e modo di guardarmi intorno.
Barcellona di notte conferma l’impressione del giorno: è splendida. Una fermata alla volta, mi godo il suo continuo mutare forma con ancora in testa l’apparizione di San Mark Zuckerberg, patrono delle nostre paturnie digitali, al super evento Samsung.
Barcellona è strana. Memore del mio ultimo, frustrante passaggio durato appena 8 ore (tanto il budget della Rai ci aveva consentito), oggi sono uscito a scoprirla correndo. Anche troppo, visto che sono andato ben oltre i miei attuali, patetici limiti.
Alcune strade sembravano quelle di milano, altre, più spesso, di Torino. I vicoli poi, fanno pensare a Genova, alla sua città vecchia come doveva essere in tempi migliori, ma anche a Napoli, se a Napoli fosse stata risparmiata la sua interminabile agonia.
C’è tanto qui, di tante cose. Gli odori sono diversi. Quello sì. Che si mangia bene si capisce subito. Che i sapori sono forti te lo annuncia il naso. Non ti puoi sbagliare.
Il bus trotterella su una strada peraltro perfetta, accanto a marciapiedi puliti, facendo a gara con il tram, in un posto dove tutto, anche il porto, dà un’idea di pulizia, ordine, di rispetto. E perché no? Di orgoglio.
Qui se ne vede tanto, negli occhi delle persone come nei cartelli multilingue, a ricordare sempre che qui si parla catalano, che c’è una storia diversa da raccontare. Che la politica, la geografia e persino la storia non bastano a cambiare la testa delle persone. Tanto meno il loro cuore.
Eh.
Siedo e scrivo, e guardo, e scrivo. È febbraio e ho su solo la camicia. Scendo alla fermata davanti alla Casa Batlló di Gaudí. Mi fermo a guardarla per un minuto intero. Sorrido.
Domani è un altro giorno.
Da bambino ero dislessico. Una forma leggera, che nessuno, specie in un piccolo paese di provincia, aveva saputo riconoscere. Se ne accorse tanti anni dopo il mio insegnante di tedesco, grafologo. “Sei anche un mancino forzato sulla destra”, aggiunse. Definitivo e diretto come solo un teutonico originario della Schwarzwald sa essere.
Mai saputo scrivere decentemente – men che meno disegnare – ancora oggi leggo lentamente. E se ho fatto la scuola dell’obbligo con onore, lo devo al fatto di non essere un completo idiota, ma soprattutto a mia madre, che passava ore seduta accanto a me a farmi fare i compiti, a combattere contro la mia incapacità di concentrarmi, di dedicarmi per più di qualche minuto di seguito alla stessa cosa senza desiderare di scatenare una guerra termonucleare globale. Un conflitto interiore e segreto che ora combatto da solo, ogni giorno con successo, solo perché nel tempo ho imparato come vincerlo, perché ho escogitato mille trucchi, e forse anche perché mi piace il risultato. Ho imparato ad amarmi.
Una lotta dura, crudele, senza pietà quella per scrivere. La concentrazione che richiede, il tempo seduto da passare immobile su una sedia, la necessità di avere le idee chiare, la magia di vedere comparire nella mente le parole giuste.
Eppure scrivere è il mio mestiere. È ciò che sono e che amo. È ciò per cui sono nato. E per questo ho imparato. Ho imparato come fare, come vincere questa strana battaglia da sempre in corso nel centro di ciò che sono.
Prima era più difficile, poi qualcosa è cambiato. Altri modi di raccontare si sono aggiunti alla parola scritta, l’hanno completata e arricchita, di fatto trasformata. Parlare in pubblico, far parlare gli altri. Ma, sopra, ogni cosa, fotografare.
La fotografia mi ha trovato prima che io trovassi lei, complice una tecnologia sempre più facile, diffusa, pervasiva. Se mi guardo indietro, vedo chiaramente che ho iniziato grazie a (o per colpa di) Instagram. Poi ho continuato, spinto dai consigli pieni di affetto di chi aveva visto qualcosa in me. E poi ancora, sono andato avanti perché semplicemente era bello. Immensamente bello.
Sono un nerd. Questo è chiaro a tutti. E per me stringere tra le mani uno strumento che sfrutta le leggi meravigliose e perfette della fisica, che concentra gli ultimi ritrovati della tecnologia, tutto per darmi la possibilità, anche solo per caso, di creare qualcosa di bello, è una gioia indescrivibile. È la rivincita sulla matita e sui colori. È la sintesi della mia capacità di raccontare.
Non penso di essere un fotografo. Sono arrogante, ma non fino a questo punto. Sono piuttosto un giornalista che racconta storie, unisce i puntini, cerca di definire quanto gli accade intorno con ogni strumento a sua disposizione: la parola, che sia pronunciata ad alta voce o scritta. E le immagini.
Le ho scoperte tardi, le immagini. Bene così. Perché probabilmente la mia incostanza si sarebbe infranta miseramente contro i tempi lunghi e le complicazioni dell’analogico.
Invece il digitale mi ha accolto tra le sue braccia con dolcezza, con amore e complicità: poter scattare e vedere subito il risultato, capire in tempo reale gli errori. Poter condividere online le immagini e ricevere feedback immediati, confrontarsi con l’esperienza di persone competenti ovunque si trovassero. Crescere rapidamente.
E capire che si poteva fare. E farlo capire agli altri, semplicemente esponendosi sui Social, per costruire in fretta una presenza, una percezione di sé, che in un circolo virtuoso alimentasse anche la voglia di fare meglio, di imparare ancora.
In cinque anni ho fatto quello che venti anni fa ne richiedeva 15. E l’ho fatto sempre e solo con gioia. Perché questo è la fotografia per me. Gioia assoluta. Il superamento delle parole e delle difficoltà ad esse legate. La sintesi di ciò che vedo e sento. La condivisione del mondo così come lo vedo e avverto. Premendo un tasto.
Sì, certo, è più complicato che premere un tasto. Ma ormai la mia macchina è un’estensione delle mie mani. Non devo più pensare e le dita viaggiano da sole, come nell’amore. Quello in cui non servono parole e le coincidenze non esistono.
Quindi, in fondo, basta premere un tasto. Cosa che faccio quando vedo arrivare una foto – perché la vedo arrivare sì, più spesso di quanto sarebbe lecito ammettere – o quando voglio raccontare la bellezza di un essere umano, che mi sembra così facile scorgere.
Sono un giornalista, non sono un fotografo. Ma scrivere mi costa da sempre mentre fotografare è una delle cose più belle è facili che mi sia capitato di fare nella vita.
E il fatto stesso che abbia dovuto scrivere per spiegarlo, ha una sua dolce, sottile, meravigliosa ironia.
A.J.
(foto scattata a Dublino con la d600 di Luca Sartoni)