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Intelligenza Artificiale, la “terza via” di Garri Kasparov

Questa intervista è stata pubblicata in forma ridotta su Wired Magazine n.85 del 2018. La ripropongo oggi, dopo aver citato la posizione di Kasparov in un mio intervento sul futuro dell’Intelligenza artificiale al Rewriters Fest di Eugenia Romanelli, per recuperare le affermazioni del campioni di scacchi, a mio avviso ancora incredibilmente attuali e utili.

Freddo, determinato, implacabile nella logica dei suoi ragionamenti: quando parla, Garri Kasparov guarda fisso negli occhi il suo interlocutore, lo scruta, ne studia movimenti e reazioni, quasi si stesse preparando ad anticiparne le mosse.

Il “più grande campione di scacchi di tutti i tempi” si è ritirato dalle competizioni da anni, ma ogni suo gesto e parola rivelano subito come il nobile gioco sia ancora al centro di un’esistenza unica. Di più: come spiega egli stesso, gli scacchi hanno forgiato il suo carattere e influenzato in maniera determinante la sua visione del mondo, pervasa da una severa e disciplinata oggettività. 

Kasparov riconduce alla scacchiera, alle sue regole ferree, agli schemi di gioco che sono al contempo trionfo di logica e creatività, ogni suo ragionamento che così semplifica, scompone e chiarisce. Come quando affronta, nel suo libro intitolato “Deep Thinking”, la questione vitale dell’intelligenza artificiale e di come questa influenzerà il futuro dell’umanità.

E’ uno splendido paradosso: colui che oggi si presenta come “evangelist” dell’IA, vent’anni fa fu protagonista di ciò che passò alla storia come la prima grande sfida tra uomo e macchina. Allora paladino dell’umanità, campione imbattibile da almeno 11 anni, Kasparov sedette alla scacchiera per confrontarsi con Deep Blue, la macchina creata da IBM per batterlo sul suo stesso campo e dimostrare al mondo il proprio potenziale tecnologico.

Tutti ricordano che Kasparov perse la prima partita quel 10 febbraio del 1996, forse perché la stampa internazionale diede al fatto enorme risalto, riconoscendo in esso una pietra miliare nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Pochi sanno invece che il campione di scacchi vinse tre e pareggiò due delle partite seguenti, battendo alla fine Deep Blue per 4 a 2;  che gli accordi con IBM gli impedirono di prepararsi agli scontri studiando gli schemi di gioco del suo avversario elettronico; che nella prima partita il sistema si bloccò e dovette essere riavviato diverse volte; che, insomma, le condizioni in cui prese forma la storica sconfitta furono abbastanza “singolari”. E, ancora, che l’anno dopo ci fu una rivincita, dove Kasparov perse definitivamente al meglio delle sei partite contro la versione aggiornata del suo avversario elettronico. 

Quel che è certo, è che da quel momento in poi la sua vita non fu più la stessa: dopo il fatale incontro con Deep Blue, Garri restò il più forte di tutti gli umani ancora per diverso tempo, ma quella sonora e inattesa batosta attrasse la sua attenzione sulla rivoluzione tecnologica in corso, facendone negli anni un acuto ed equilibrato osservatore.

La parabola dell’uomo si rispecchia nella struttura dei suoi scritti sull’argomento: il saggio “Deep Thinking” parte infatti dalla rievocazione dello storico match Kasparov – Deep Blue, rivelando retroscena inediti e ribadendo il ruolo che negli anni gli scacchi hanno rivestito come perfetta palestra per l’addestramento delle macchine. Poi la visione si allarga, il punto di vista si innalza, proponendo un approccio originale e inedito alla questione dell’intelligenza artificiale e di come cambierà le nostre vite. 

Lucida, oggettiva, forte di una logica incalzante, la visione dell’ex campione di scacchi si pone al centro di ogni ragionamento, dove resta equidistante tanto dal fanatismo entusiasta quanto dal catastrofismo oscurantista. È lì che prende forma, assennata e condivisibile, la “terza via” di Garri Kasparov, secondo il quale «l’IA è semplicemente uno strumento che, come tale, richiede un approccio che non deve essere religioso o estremistico. Ogni tecnologia può aiutare o danneggiare gli essere umani: dipende da ciò che essi decidono di farne». 

Da icona dello scontro uomo – macchina a “evangelist” dell’intelligenza artificiale. Quando e perché ha cambiato idea?

«Una delle principali ragioni per cui sono stato campione del mondo di scacchi per vent’anni è che sono sempre rimasto obiettivo. Se vuoi essere il più forte, devi essere bravo a valutare con obiettività la situazione in cui ti trovi. Quando ho perso contro Deep Blue, ovviamente ero arrabbiato e volevo la mia rivincita. Poi però, con il tempo, mi sono reso conto che quello era l’inizio di una nuova era, e che presto le macchine avrebbero conquistato sempre più spazi di utilizzo, quindi non aveva alcun senso opporsi al progresso e combatterle. Senza contare che è proprio grazie agli scacchi, il territorio dove ormai da decenni si allenano le intelligenze artificiali, che ho compreso la verità».

E quale sarebbe?

«Che l’intelligenza artificiale non ci salverà né distruggerà: il futuro dell’umanità dipende dalla collaborazione tra uomo e macchina».

Come deve avvenire questa collaborazione?

«Nel mio ragionamento, che nasce ovviamente osservando la sperimentazione basata sul gioco degli scacchi, quando si mettono assieme un essere umano e un’intelligenza artificiale per farli collaborare, più importante delle rispettive abilità è l’efficienza del processo con cui essi si relazionano. Uno scacchista di medie capacità e una macchina, uniti da un buon processo, sconfiggono sia un computer più forte di entrambi, sia un campione di scacchi in coppia con un supercomputer quando questi collaborano in virtù di un processo meno efficiente». 

 È la cosiddetta “Legge di Kasparov”…

«Il senso è questo: perché la collaborazione uomo – macchina abbia successo, la persona coinvolta non deve necessariamente essere un campione, ma deve essere colui che possiede le competenze specifiche necessarie a compensare le mancanze nella macchina in quel dato momento, cosa che varia a seconda del settore in cui si opera, del contesto e del compito specifico da eseguire. Le intelligenze artificiali non saranno mai indipendenti al cento per cento, lasciando sempre lo spazio necessario agli esseri umani per avere un ruolo fondamentale: fare le domande giuste, creare framework efficienti nonché definire compiti e gli obiettivi».

Da come la descrive, il talento umano sembra quasi essere un ostacolo all’interazione tra uomo e IA.

«Quello che serve è una profonda comprensione dei propri limiti oltre che dei propri pregi, tale da evitare una inutile competizione con la macchina o, peggio, la sovrapposizione tra le diverse capacità. È una grande occasione per liberare la nostra creatività: lasciando alla macchina altri compiti che sa fare meglio di noi, possiamo liberare il nostro potenziale e guardare oltre».

Quindi non dobbiamo temere le macchine?

«Ciò che ci aspetta può apparire spaventoso o estremamente affascinante: per me è semplicemente fantastico, perché credo che le IA potranno aiutarci a realizzare i nostri sogni più ambiziosi. Lo faranno liberandoci da compiti gravosi e ripetitivi mentre immaginiamo e progettiamo cose più grandi. O, ancora, consentendoci di riprendere in mano imprese come l’esplorazione spaziale, che avevamo abbandonato perché troppo rischiose».

Questo vale anche per le aziende?

«Qualsiasi impresa che sappia e voglia guardare al futuro non può fare a meno di includere soluzioni basate su IA nella nella propria strategia. Quale che sia il settore industriale in cui essa opera, le opportunità di crescita ed evoluzione sono illimitate».

E le sembra che i manager comprendano questa necessità?

«Non ancora, ma capisco il loro disorientamento: negli ultimi anni si sono moltiplicati i messaggi distopici che parlano di un futuro dove le macchine ci minacciano e attentano alla nostra vita, influenzandone il giudizio. Per me la questione è molto semplice: l’intelligenza artificiale non è la salvezza o la soluzione a tutti i nostri problemi, né il vaso di Pandora scoperchiando il quale scateneremo la fine dei giorni.  È solo ciò che sapremo farne». 

Fin dove pensa che si spingerà questa collaborazione che descrive tra uomo e macchina? Alla fine ci fonderemo con esse come sostengono alcuni?

«Già oggi, la robotica con le sue protesi e i trend della ricerca scientifica ci suggeriscono che un giorno potremmo essere in grado di aumentare le nostre abilità fisiche grazie alle macchine. Credo che ciò che ci rende umani non potrà essere mai replicato, perché non abbiamo compreso come funziona il cervello umano, ma mi sento di accogliere con favore tutto ciò che ci renderà più forti, più veloci e più capaci di fare quello che l’umanità sa fare meglio, cioè continuare a esplorare ed espandersi, magari proprio nello spazio».