Bahram sorride. Bahram viene da lontano. Bahram è di Teheran. E parla bene l’italiano. E conosce il nostro paese. E cucina da Dio, anche se non apprezzerebbe il paragone. Troppo forte per chi viene dal suo mondo, forse. O forse avrei dovuto dirglielo, ma ho perso l’attimo. Il kubidé era troppo buono, e forse stasera avevo bevuto troppo per stare sul pezzo.
“Mia moglie è quella che sa cucinare davvero”, mi dice. La vera cucina iraniana è complessa, mi dice. E intende: “troppo per me”. Ma il panino è buono. Davvero. E lui è un ospite discreto e accogliente. E conosce tutte le lingue del mondo. O almeno così penso io, che provo a spiegarglielo strisciando qualche esse. Che vuoi, dopo troppi spritz, divento troppo romano.
“Il cibo è la lingua universale” gli dico. “Se la gente si concentrasse sui sapori, gli odori, se volesse davvero comprendere, sé masticasse più lentamente, le cose andrebbero meglio”. Lo penso davvero: ho viaggiato tanto, imparato tanto. E capito che quando sei lontano da casa, in un paese di cui sai poco o niente, e ti siedi per mangiare, se qualcuno ti chiede “come lo preferisce, con o senza questo o quello”, l’unica risposta è un’altra domanda: “lei come lo mangerebbe?”. Che ci pensi lui. È la sua cultura, non la mia.
Il cibo è lingua universale. E come ogni lingua, funziona solo se sei disposto ad ascoltare. Se vuoi davvero imparare. Se non pretendi di sapere già tutte le risposte. L’avessi capito prima, sono certo che ora la mia vita sarebbe diversa.
Bahram, che mi ascolta, capisce: “E’ giusto”, risponde. Poi continua: “Ci penso io. La cipolla ci va. E anche il piccante”.
Gli racconto di quella volta in Francia, quando io che non parlo Francese mi misi a sedere in quel locale dove il proprietario non parlava inglese, ma a gesti mi chiese se volevo uno, due o tre piatti. “Tre”, risposi io, mostrando le dita della mano (avevo fame). “Ci penso io”, rispose lui, semplicemente chiudendo gli occhi e battendosi la mano due volte sul petto. Mi portò carne, formaggi e un dolce immensi. Mangiai con gioia. L’uomo vide nei miei occhi la riconoscenza e mi diede una pacca sulla spalla. In un certo senso, avevo imparato un po’ di francese.
Il panino di Bahram è pronto. Arriva finalmente il primo morso. Ci guardiamo: lui aveva ragione, a me è bastato dargli retta per capire qualcosa di lui e dell’Iran. Sorridiamo entrambi.
Mi racconta del Baklava, di quello vero fatto in una città nel deserto di cui non ricordo il nome, situata a mille chilometri da Teheran. Di come sia difficile procurarselo. Di come sia infinitamente buono. Unico. “Non serve masticarlo – mi dice – perché si scioglie in bocca. E però allo stesso tempo non puoi fare a meno di masticarlo, perché è troppo buono”.
Penso che sia una frase bellissima. Gli stringo la mano e me ne vado, dandogli appuntamento alla prossima.
Lungo la strada, penso che se mangiassimo con più rispetto, con più cuore, che se provassimo a comprendere il linguaggio universale del cibo, forse il mondo sarebbe un posto migliore. Pieno di gente grassa e serena.
Un paradiso dipinto da Botero.