Da vent’anni in prima linea nella ricerca sull’intelligenza artificiale, Adam Cheyer è considerato il padre di Siri e, più in generale, dei moderni “assistenti digitali”. “Abbiamo fatto dei progressi, ma per una vera IA ci vorranno altri cento anni” dice, smorzando i facili entusiasmi. E questo perché, anche a fronte di un’enorme potenza di calcolo, “non possiamo replicare con il software qualcosa che ancora non comprendiamo”.
Come nasce Siri?
«Siri come lo conoscete oggi è solo uno degli spin-off del “Calo project”, dove CALO è acronimo di “Cognitive Assistant that Learns and Organizes”. Il progetto è stato voluto e sostenuto dalla Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) con investimenti pari a 250 milioni di dollari, ha fatto lavorare insieme 400 persone per 5 anni, dal 2003 al 2008, e ha coinvolto 27 centri di ricerca guidati dallo Stanford Research Institute».
Perché un’organizzazione come DARPA si è interessata all’IA?
«L’obiettivo era costruire un “assistente digitale” basato su una vera intelligenza artificiale, uno strumento che riunisse in sé diverse tecnologie nella quali si stavano facendo grandi progressi separatamente, come il riconoscimento vocale o il machine learning. La sfida era insomma creare un sistema che potesse percepire la realtà, che fosse in grado di imparare ed evolversi da solo grazie all’esperienza, all’interazione e alla comunicazione con il mondo. E che fosse in grado di reagire in tempo reale a ciò che accade intorno all’utente».
Chiariamo subito un punto: secondo te la mission può definirsi accomplished?
«Per cinque anni ho avuto l’onore di lavorare con i più grandi esperti al mondo di intelligenza artificiale. E’ stato incredibilmente affascinante, abbiamo fatto dei notevoli passi avanti, ma quell’esperienza ha anche notevolmente ridimensionato le mie aspettative. Specie rispetto a quando saremo davvero in grado di creare qualcosa che le persone comuni possano riconoscere come vera IA».
Ridimensionato di quanto?
«Al punto da convincermi che per creare un’intelligenza artificiale dovremo aspettare almeno altri cento anni».
C’è da rimanerci male, specie se ci si lascia sedurre dalle mille promesse del marketing e della fantascienza. Ma perché?
«Credo ci sia un che di magico e profondo nell’intelligenza degli esseri umani che finora non siamo riusciti non dico a cogliere, ma nemmeno a sfiorare».
Cento anni però sono davvero tanti…
«Davvero? Oppure sono pochi? Non saprei dire, e non vorrei sbilanciarmi troppo in previsioni. Alla fine degli anni ’50 Ray Kurzweil ha predetto quello chiamiamo la “Singolarità”, ovvero il momento in cui macchine sempre più potenti saranno in grado di replicare i processi della mente umana dando vita a un’intelligenza artificiale superiore alla nostra, e l’ha collocata temporalmente intorno al 2025. Ma tale previsione si basa solo sulla crescita esponenziale della potenza di calcolo dei nostri computer».
Ed è sbagliato?
«Basta focalizzare sul software per capire che la risposta è sì. Il computer che uso oggi è vari ordini di grandezza più potente di quello che usavo solo dieci anni fa, ma se guardo al programma di scrittura con cui elaboro i miei testi, mi accorgo che è rimasto fondamentalmente uguale a quando è stato creato, ormai ben trenta anni fa. Quindi, da un lato abbiamo la capacità di calcolo che cresce seguendo una curva esponenziale, mentre dall’altro dobbiamo confrontarci con la capacità umana di comprendere come funzionano le cose e di creare software, che invece si evolvono in maniera molto più lineare. E temo che di questo Kurzweil non abbia affatto tenuto conto».
In pratica, l’anello debole del processo è l’uomo stesso…
«Siamo noi a produrre il software, che semplicemente finisce col rispecchiare i nostri limiti nel comprendere realmente cosa sia l’intelligenza. Non possiamo replicare con il software qualcosa che non comprendiamo. E anche se oggi siamo già in grado di creare macchine che imparano, si tratta ancora di cose di estremamente superficiali».
Intanto però la ricerca procede, seppure a rilento.
«Attualmente gli studi corrono su due binari paralleli, lungo i quali si adottano approcci molto diversi. Da un lato, c’è un filone d’indagine che punta a comprendere il funzionamento del cervello umano, che può contare su oltre un miliardo di dollari di investimenti e su una collaborazione tra Stati Uniti ed Europa. Non so esattamente a che punto siano, ma da molti segnali credo di poter dire che abbiano davanti almeno un secolo di lavoro. Se non due».
Addirittura. E l’altro binario?
«Si basa su un approccio software-centrico, che non si cura principalmente di come funzioni il cervello, né mira a comprenderlo, ma piuttosto punta a emularne il funzionamento nel modo più pratico possibile. Un po’ come avviene per un ingegnere aeronautico, che non deve comprendere come faccia un uccello a volare e usa una tecnica molto differente che però funziona e raggiunge lo scopo. Per quanto riguarda il software, credo che progetti come Siri abbiano compiuto alcuni progressi, rendendo la vita di chi li usa migliore e più semplice, e che miglioreranno ancora nei prossimi anni. Tuttavia non penso che raggiungeranno mai quella vera e profonda coscienza che è propria dell’intelligenza. Resteranno una semplice emulazione delle sue funzioni».
E tutto questo, nonostante la tecnologia che avremo a disposizione in futuro?
«Tra le realtà di cui sono stato co-fondatore, oltre a Siri e Change.org, c’è anche Genetic Finance, dove gestiamo una piattaforma hardware che può contare sulla potenza di calcolo di oltre un milione e trecentomila CPU. E’ più di quante ne abbiano Amazon, Microsoft o Apple. Su questo hardware gira una piattaforma di Machine Learning che analizza grandi data set per produrre insight, generare previsioni e risolvere problemi nell’ambito di settori come la Finanza, la Salute, o la Genomica. Quindi, riassumendo, disponiamo di una potenza di calcolo quasi infinita, delle migliore tecnologie esistenti di intelligenza artificiale, e riusciamo a trovare soluzioni pratiche a problemi reali ma – lasciamelo dire – siamo ancora ben lontani dall’ottenere quella che possiamo definire vera intelligenza. Quella, per intenderci, che in una qualsiasi persona normale individueremmo sotto forma di coscienza e capacità di ragionamento. O che riconosciamo nelle capacità di un bambino di appena tre anni, che di fatto sono già incredibili per il modo in cui pensa, apprende, agisce, o usa il linguaggio».
Nel 2014 sono 20 anni che lavori sul progetto Siri. Dopo ben due decenni, qual è il tuo bilancio?
« In questi anni ho creato circa 15 iterazioni del sistema Siri, e ogni versione ha un posto nel mio cuore per ragioni diverse. Eppure nessuna di esse ha soddisfatto pienamente le mie aspettative. E’ sempre stato, e resta, un work in progress».
– Articolo originariamente pubblicato su Wired Magazine, edizione giugno 2014 –