Radiohead music business, un fallimento di successo

La “questione Radiohead” ha destato molto interesse e commenti appassionati in tutta la blogosfera, Blogs4biz compreso. Nell’ultimo post sull’argomento, pur se in parte sviato dai dati inesatti riportati sul Corriere.it (non un piazzaefichi.com qualunque), ho definito l’iniziativa un fallimento. La tesi ha stimolato diversi commenti, tutti di qualità e quasi tutti unanimi nel darmi torto.

I Radiohead, sostengono i lettori, hanno vinto la scommessa perché:

1) Le royalties incassate da un gruppo per la vendita di ogni cd sono talmente esigue da rendere l’operazione “In Raimbows” comunque redditizia, anche se a pagare sono stati solo 2 downloaders su 5. (Andre)
2) “Questa iniziativa ha permesso anche a molti utenti che non conoscevano i Radiohead di accedere alla loro musica”. Inoltre, gli 1,2 milioni di utenti che hanno visitato il sito “sono parte di quel campione di 2 milioni monitorato da ComScore. C’e’ margine per qualsiasi speculazione/rumor, a questo punto” (Ferd).
3) E’ errato parlare di tradimento dei fans: “non tutti quelli che hanno scaricato sono fans, bensì semplici curiosi et similia. Sono più che sicuro che i veri fans siano stati più che generosi”. (Zen).
4) “Il 40% ha pagato. Gli altri lo avrebbero comunque scaricato dal p2p. E come ha scritto Andreutti, hanno avuto una visibilità (e un db di nominativi) che valgono anche i soldi mancanti dal 60% portoghese. Francamente non vedo perché lo stesso ragionamento – in scala – non dovrebbe valere per band poco famose”. ([mini]Marketing).
5) La visibilità ottenuta è tema caro a molti: “Non solo i Radiohead hanno fatto cassa, ma vogliamo parlare del costo di una campagna pubblicitaria massiccia come quella che ci fa parlare adesso di questo caso?” (Roberto). E ancora: “Di nuovo, stiamo considerando solo gli introiti e non il ritorno di immagine e il buzz, che sono difficilmente quantificabili” (Feba).

Fuori dal coro Matteo invita tutti a focalizzare sulle reali intenzioni del gruppo: Se l’obiettivo è stato unicamente la vendita, sul verdetto non sembrano esserci dubbi: fallimento. “Se l’obbiettivo è invece il buzz ed il ritorno di immagine il risparmio sugli investimenti in comunicazione giustifica da solo l’impresa”.

In giro per la rete ho trovato interessanti anche le osservazioni di Roldano De Persio, che scomoda nientemeno Platone per spiegare, credo saggiamente, come l’assenza di prezzo e di controllo sia una tentazione troppo forte a non pagare anche per il più affezionato dei fans. L’amico professore invece fa i conti in tasca ai Radiohead per spiegare come le entrate derivate dall’operazione non siano da sottovalutare. E profetizza: “non assisteremo a fenomeni di disintermediazione (se ne parla da anni, senza che mai si verifichino); ma vedremo senz’altro processi di reintermediazione a valle della rimodulazione delle value chain del settore”.

Ciò detto, e fatti i debiti ringraziamenti a chi ha partecipato alla conversazione, la parola torna a me. E a questo punto io credo che l’esperimento – alla luce dei dati attualmente in nostro possesso (come suggerisce Annarella) – sia stato allo stesso tempo:

a – Un fallimento se lo scopo era inaugurare una nuova forma di business disintermediata, libera dalle logiche del mercato dettate dalle major, basata su un rapporto schietto e diretto con i fan/acquirenti. Si è venduto poco, molti non hanno pagato e quei pochi che lo hanno fatto hanno pagato poco. E parlavo di una Band con la B maiuscola. Che si guarderà bene dal rifarlo e sta già correndo ai rimedi nei negozi tradizionali. Per la prossima volta consiglio di imporre per l’album un prezzo minimo: magari 10 centesimi in meno diu quello che farebbe iTunes.

b – Un successo se lo scopo era creare buzz. Se ne è parlato in lungo e in largo, su ogni tipo di media, e il nome della band è passato su bocche che in genere non pronunciano niente meglio di “Pausini” “Ramazzotti”. Una simile campagna stampa val bene qualche download gratuito ma, di fatto, è irripetibile. I Radiohead hanno spiazzato tutti con la novità; eventuali cloni non avranno la stessa attenzione della stampa.

c – Una iattura per tutti gli altri gruppi musicali che vorranno provarci seguendo le stesse regole: sanno già che il sistema non paga e hanno perso l’effetto sorpresa. Se ci provano, la stampa non sarà così generosa nel dare loro spazio.

d – Una sconfitta per gli utenti/fan/acquirenti. Potevano “rimodulare le value chain del settore” e invece si sono limitati a rubare, seppur nel rispetto della legge.

Le idee e gli strumenti per cambiare il mercato della musica ci sono. E’ la cultura che manca.

Update: diamo a Martines quel che è di Martines. Ha ragione da vendere quando scrive: “Continua a sfuggirmi l’origine del dato di 1,2 milioni di downloads. Nella press release di ComScore si dice solo “1.2 million people worldwide visited the “In Rainbows” site, with a significant percentage of visitors ultimately downloading the album”.
Possibile che solo io ci legga il fatto che 1,2 milioni sono i visitatori del sito nel periodo, e non il numero di downloads? Avete forse altri link comScore più precisi, che io non ho trovato?”

8 pensieri su “Radiohead music business, un fallimento di successo

  1. Anonimo

    La questione è semplice. Sarebbe una bufala se i dati fossero stati inventati dal nulla. Comscore è un’azienda specializzata in sondaggi, ha fatto il suo lavoro ed espresso dei numeri.

    I Radiohead non hanno rivelato nulla prima e, pur avendo smentito – come giustamente segnali – i dati di comscore, non hanno tuttavia ritenuto opportuno rivelare quelli esatti in loro possesso. Quando lo faranno discuteremo ancora.

    Fino ad allora non c’è nulla di sbagliato o sciocco se la comunità si confronta su dati attendibili fino a prova contraria, visto che non li ha forniti il pizzicagnolo dietro l’angolo.

    Se poi dovessero rivelarsi inesatti, sarei il primo a rallegrarmene, in quanto apprezzo il valore “morale” dell’operazione “In raimbows” senza riserve.

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  2. Annarella

    Scusa ma se X dichiara di avere analizzato i dati di fatturato di Y ed Y dichiara di non avere mai rilasciato quei dati i casi possono essere:

    a) X mente
    b) Y mente

    In questo caso, utilizzando unicamente la logica, l’unico modo in cui posso pensare che un business case sarebbe valido e’ “secondo l’analisi di comcast basata su dati di provenienza non avallata da alcun issuer”

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  3. Andrea Martines

    Fidavo giusto negli amici: cominciavo a pensare di avere le visioni! 😉
    Io non credo possiamo dare giudizi sul successo o meno dell’operazione prima che escano i dati veri. Per questo finora ho concentrato i commenti sul ramo laterale degli svarioni giornalistici sulle cifre.

    A occhio, però, credo abbiano messo preventivamente in conto che la libertà dalle etichette possa essere pagata con una certa limatura degli introiti. Questa volta è drogata dall’essere la prima, quindi è poco attendibile.
    Nelle successive, l’importante per la sostenibilità di un mercato (parzialmente) disintermediato sarà attestare i ricavi degli artisti non sullo stesso livello, ma sullo stesso ordine di grandezza di quello del mercato attuale: anche la metà va bene (siamo in un mercato drogato dal prezzo alto dei cd, i ricavi sono comunque destinati a scendere, un po’ come per i calciatori), mentre un decimo non andrebbe più bene!

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  4. Anonimo

    Annarella, hai dimenticato

    c: y non rivela i propri dati ma x, che segue un campione rappresentativo di utenti monitorandone il comportamento, elabora tramite sondaggio dei dati statisticamente attendibili sull’andamento deglin affari di x.

    E’ pratica comune e funziona, pur tenendo conto di una certa approssimazione. Per questo non è stato stupido parlarne e discuterne fino ad ora.

    Ripeto, quando vedrò i dati ufficiali della Band, sarò pronto a cambiare rotta se si renderà necessario.

    Intanto lascio ai responsabili comscore la possibilità di spiegare il loro metodo e argomentarne la validità:

    Dal loro blog
    : “comScore reports are derived from a representative sample of 2 million Internet users, who opt in to our panel and allow us to observe their actual online behavior, including e-commerce transactions. Because the data are based on passively observed consumer behavior, as opposed to polls or survey responses, there is no potential for recall error. When we observe an e-commerce transaction in our panel, the value we observe represents the actual price paid by that consumer.

    As an affirmation of the validity and representivity of our panel, we regularly release quarterly U.S. e-commerce spending estimates, several weeks in advance of the U.S. Department of Commerce releasing its own figures, and during the past 7 years our figures have rarely deviated from the official Commerce numbers by more than a few percent.

    For the Radiohead study, we observed the activity of nearly one thousand people who visited the “In Rainbows” site, a significant percentage of whom downloaded the album. We ultimately observed several hundred paid transactions, all of which ranged between $0-$20, representing a very robust sample for estimating the average price paid per transaction. It’s true that any sample has natural variability, so these numbers are, in fact, estimates. “

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  5. Aubrey

    Scusate, posto i proverbiali m2c, allontanandomi un poco dalla disputa presente.
    Mi sembra che la questione si possa guarda con più ottimismo, rispetto all’ultima analisi di Alessio, che dava un solo risultato positivo su 4 (4 intesi come punti di vista diversi sulla stessa questione).
    Perchè:
    * in pochissimo tempo, milioni di persone (12?) hanno scaricato l’album e con tutta probabilità l’hanno ascoltato.
    ** detto questo, sarebbe da confrontare conle statistiche degli album precedenti: quante copie vendute nelle prime settimane, quanti soldini effettivi arrivate nelle tasche dei Radiohead
    * la pubblicità avuta a livello mondiale è stata immane. Bisognerebbe conoscere dunque le statistiche (presenti e future) del merchandising, e soprattutto, vorrei vedere quanti sold out faranno ai prossimi concerti

    Aggiungo che in questo modo si abbassa moltissimo la percentuale degli scaricamentio selvaggi via p2p, perchè è quasi più semplice scaricarlo da sito (e questo permette un controllo maggiore). Dunque si hanno stime più attendibili sui reali ascoltatori dei Radiohead (poi, basta guardare Last.fm ;-)). Credo non sia una cosa da poco.

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  6. Francesco

    Chi avrebbe finanziato l’indagine?
    Chi avrebbe tutto l’interesse per diffondere la notizia di un flop?
    La disinformazione sa essere un’arma molto potente, e visti gli interessi che sono in gioco…
    Che triste spettacolo, però, tutti questi giornalisti e analisti che fanno rimbalzare la notizia senza andarsi a ricontrollare i dati…

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  7. matteo

    Altro che flop. Condivido assolutamente il commento precedente di francesco: “Chi avrebbe tutto l’interesse per diffondere la notizia di un flop?
    La disinformazione sa essere un’arma molto potente, e visti gli interessi che sono in gioco…”

    Un paio di considerazioni che rispondono in parte ai punti da te elencati:
    – Nessun artista intelligente al giorno d’oggi si può permettere di basare i suoi guadagni sulla vendita della propria musica. Gli artisti questo lo sanno benissimo e si stanno adeguando, sono solo le case discografiche che non sanno che pesci pigliare.
    – Vorrei sapere quante copie scaricate ilegalmente da e-mule, limewire e torrent vari ci sono in giro di un album che è stato ufficialmente pubblicato su cd. Se quantificassimo le mancate vendite di questi cd (come stanno quantificando i mancati pagamenti di in rainbows) allora si che ci sarebbero tanti flop.
    – Per quanto riguarda il modello vendita, quelo di in rainbows non è così nuovo. E’ solo la prima volta che una band così importante lo attua. Altri gruppi continueranno a distribuire musica gratuitamente e nessuna testata giornalistica ne parlerà. Il modello è vincente. O per lo meno l’unica percorribile.

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