Lost in Tel Aviv

A fine ottobre 2012 ero a Tel Aviv con Luca per seguire il DLD. Era un momento “complicato” e avevo voglia di scrivere. Così ho cominciato a raccontare su Facebook qualcosa di quello che vedevo. Cose brevi, che ho amato scrivere, dove mi diverto a raccontare le peripezie alla dogana, una corsa unica, la visita a Gerusalemme o l’incontro con il Presidente Shimon Peres e altro ancora.

Facebook aveva inghiottito e nascosto questi racconti. Li riporto alla luce qui, nella mia casa digitale che per troppo tempo ho trascurato.

“Benvenuto”

Esco dall’aereo con tutti gli altri. Il poliziotto è alla fine di un lungo corridoio, oltre il finger.

621259_10151080046547466_1067512759_oMi vede. Mi punta. Mi aspetta. Mi ferma. Vuole il passaporto. Lo guarda: “Via gli occhiali”. “Ero ancora giovane”, dico io scherzando. Lui, un’espressione impenetrabile. “Ha un altro documento?”. Favorisco la carta d’identità. “Sarebbe un giornalista?”. Favorisco il tesserino. Non è convinto. Mi scruta. Mi riscruta. “Mi segua”, dice.

Stanza spoglia e angusta. “Apra la borsa”. Tiro fuori tutto. Macchina fotografica, obiettivi, iPad, macbook, stampate prenotazioni, sigarette, accendini, cellulare di riserva. Non li guarda né tocca. Mi scruta. 5 interminabili minuti. “Può andare”, dice.

Non gli stavo simpatico. Lo vedi che la cosa è reciproca?

Dall’alto

415625_10151080039832466_460088600_oUna luna pigra e riversa mi guarda dal cielo. O forse mi ignora, ma con classe. Ci sta. Da una terrazza splendida vedo lo skyline di Tel aviv. Qui fa buio presto la notte è scesa in fretta. Annoiata. Sbrigativa.

Aspetto. Un’ambulanza si ferma lungo la strada. Qualcuno forse ha bisogno di aiuto. Poi va via a luci spente, e raramente è un buon segno.
Soffia il vento e sa di mare, di storia. Di vite vissute che non so comprendere. La sirena di un’altra ambulanza urla lontano, ma non troppo. Riesco anche a vederla passare. Sembra di essere a Roma, Londra, Parigi, Berlino, New York.
Quando parti il mondo sembra enorme. Quando arrivi le distanze si annullano, ti accorgi che è fin troppo piccolo, allo stesso modo ferito e indifeso, in continua evoluzione.

Poi capisci: il mondo è negli occhi di chi lo guarda.

L’incrocio

Lo sento, molto prima di vederlo. E’ nell’aria, e non è un complimento. La testa crollata, la mano che trattiene un carrello stracolmo di cianfrusaglie e buste ricolme di povere cose. Dorme o e svenuto, ma non molla la presa da quello che resta della sua vita.
Ben poco a guardar bene.

57425_10151080040717466_42396279_oSfido l’olfatto e mi avvicino. Vorrei fotografarlo, ma Luca ha ragione: una foto piena di significato non vale la dignità straziata di quella che era una persona prima di diventare uno scarto, il rifiuto di un sistema in cui non ha trovato posto.

E’ ubriaco e respira a fatica. Ha scelto uno svincolo per abbandonarsi alla sua agonia. Forse vuole essere visto, vuole che si sappia; vuole che io, che noi lo si veda. Spengo la macchina fotografica e lo osservo. Poi, all’improvviso, alza la testa, spalanca gli occhi ed inizia a cantare. Sì, a cantare. Non capisco una parola eppure un po’ mi commuovo. Forse è una canzone d’amore, forse un inno religioso. Forse una preghiera.

Forse. Oppure grida tutto il suo dolore che, per un attimo troppo breve, è anche il mio.

Fastest run of my life

Via il primo, via il secondo. Via anche la terza. Il quarto è un gioco da ragazzi. Stasera vi passo tutti. Stasera ce n’è fin troppo. Le scarpe leggere fin dai primi passi. Il vento in faccia che si oppone. Inutilmente.

 

622039_10151080031342466_1662745344_oPiù forte. voglio andare più forte. Oltre il limite. Lasciare tutto alle spalle. Posso farcela. Ce la faccio. E’ una serata magica. Un metro dopo l’altro, un passo dopo l’altro, il Gps conta i chilometri. Qualcuno prova a starmi dietro, ma è la mia serata. Lo perdo. Corro troppo forte.

Ho tenuto gli occhiali e stavolta riesco e vedere: vedo il lungo mare pieno di vita, di ristoranti, di gente che corre, pedala, cammina oppure siede e cena. Sembra ancora estate. La temperatura è quella, in fondo. “Sembra davvero un bel posto”, penso.

Mi spingo più lontano della prima volta, poi le gambe mi dicono improvvisamente che devo tornare. Sono ancora veloce, ma sento il peso della distanza, delle sigarette che bruciano nei polmoni, della mancanza di acqua. Resisto e vado avanti, poi vedo il porto di Jaffa riapparire lontano. Ed è allora che mi accorgo di lui.

Avrà vent’anni. Più alto di me, fisicamente più solido, dal passo più sicuro, mi ha raggiunto e mi corre accanto. Vuole superarmi. Non deve. Sono esausto ma l’orgoglio è più forte. Mi sfilo la maglietta e accolgo il senso di benessere portato dal vento della sera. Tengo botta, anzi spingo. Resta dietro, ma io respiro a più non posso mentre tento di iperventilare. Lui no. Aspetta e mi segue. Resisto tre chilometri, dall’ottavo all’undicesimo. Poi il cuore dice basta e inchiodo, mentre mi passa e lo vedo allontanarsi, di schiena.

Vorrei ringraziarlo per avermi costretto a dare tutto, ad andare oltre. Invece è già lontano mentre io resto lì, col cuore che batte all’impazzata e la coscienza che ritorna.

Implacabile.

Shimon Peres, il vecchio leone

Il vecchio leone sorride, sereno. L’anno prossimo avrà novant’anni e si è lasciato alle spalle prima o dopo gli altri protagonisti della sua epoca, nel bene e nel male. Arafat è morto. Rabin è morto. Sharon è in stato vegetativo dal 2006. Lui è diventato presidente dello stato di Israele. E il rispetto assoluto, deferente che gli mostrano i suoi assistenti insieme al pubblico selezionato di speaker e giornalisti del DLD Tel Aviv, parla per lui.

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Il moderatore dell’evento gli fa una domanda. Lui risponde con una battuta. Tutti ridono mentre li guarda sorridendo. Il vecchio leone ha già vinto. Molto tempo fa. Può dire quello che vuole. Dice quello che vuole. “Veniamo da una cultura agricola in cui eravamo abituati a coltivare le piante. Ora siamo in un mondo tecnologico dove dobbiamo imparare a coltivare le menti”. Poi divaga. lo perdo. Parla pianissimo e fatico a capirlo. Forse sono riuscito a registrare qualcosa. Forse.

Lo ascolto mentre prendo su la macchina fotografica. Sono entrato tardi dopo infiniti controlli di sicurezza. Era la prima volta che mi chiedevano “lei possiede armi?” con quella naturalezza, con quel tono ordinario da commessa al bancone del pane. Tanto per ricordarmi dove sono e cosa significhi davvero esserci. Quale sia la “normalità” qui.

Scatto, poi scatto ancora, e ancora. Riguardo, ingrandisco, arrivo al massimo dettaglio possibile. La voce di Shimon Peres, 89 anni, 65 anni di politica alle spalle, risuona bassa, calda e sicura nel silenzio irreale di una sala dove siedono almeno 50 persone ammutolite. “Leadership is not about taking, is about giving” dice mentre sul mio schermo studio il suo volto.

Il vecchio leone ha vinto, penso.

Glielo si legge negli occhi.

Gerusalemme!

“Via Dolorosa”. Una “V” incisa in un cerchio di metallo campeggia in alto, accanto alla targa. La quinta stazione della via Crucis, dove Simone di Cirene aiutò Gesù a rialzare la croce.

620885_10151085008632466_1190374820_oIn alto un cielo azzurro, netto, assoluto. In basso un fiume multicolore di persone che mi investe fino quasi a trascinarmi via. A volte sembra quasi che mi attraversi, mentre un po’ ne invidio la fede e il saper credere ancora in qualcosa. In qualunque cosa.

Gerusalemme e la sua storia. Gerusalemme e le sue guerre, le sue fedi, il suo messaggio. La guida ha poco tempo per noi e corre come fosse inseguita dal demonio. Resto indietro, volontariamente mi perdo. Cammino seguendo il ricordo delle cose lette e delle immagini viste sui libri. Prima il quartiere armeno, poi quello ebraico. E poi ancora il territorio mussulmano, fino alle case e ai templi dei cristiani.

Giri un angolo e il mondo cambia di schianto, cogliendoti di sorpresa. Tutto è uguale e diverso, contrapposto a ciò che lo precede, inebriante e assordante allo stesso tempo. Vestiti nuovi e dai colori sgargianti appesi in vendita alle pareti, dolci e pane sistemati un po’ ovunque, senza stare troppo a sottilizzare. Bambini che sciamano su e giù per scale e viottoli. Li osservo: giocano come bimbi, ma parlano e gesticolano come adulti. Qui si cresce in fretta.

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Cammino seguendo la corrente. Qualche svolta fortunata e mi ritrovo davanti alla chiesa del Santo Sepolcro. Entro per dare un’occhiata, ma la folla di turisti e pellegrini mi infastidisce e giro subito i tacchi. Non sono cattolico, ma ho sempre immaginato quel posto vuoto, silenzioso e sacro. Al terzo squillo di cellulare capisco che è tempo di prendere il volo. Amen.

Esco e torno nel presente. Scatto qualche foto senza troppa convinzione. Mi mancano fiato e ispirazione, mentre cammino fino a passare davanti al Muro Occidentale. Poi d’improvviso mi fermo al centro della piazza, mi guardo intorno. Chiudo gli occhi.

Per alcuni è da quelle parti che è stato creato il mondo. Per altri, scopro, può essere lì che il mondo finisce.

“Arrivederci e torna presto eh?”

Quaranta minuti possono essere tanti o pochi. Dipende da cosa fai, con chi, dove e perché. Quelli che ho passato io con un’addetta alla security dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv sono stati soprattutto una cosa: istruttivi.

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Non userei la parola interrogatorio. Non è adatta. Sarebbe persino ingiusta. Parlerei piuttosto di “indagine conoscitiva approfondita dai risvolti sociali e psicologici”.

Tutto inizia con una pantomima simile a quella dell’arrivo: gli addetti controllano tutti con scrupolo e ostentando certa sicumera, ma come al solito è me che puntano. E quando mi chiedono perché sono stato lì, faccio il solito errore: “sono un giornalista”, rispondo, “e ho seguito un evento al porto di Jaffa”. “Aspetti un minuto qui”, mi dice una ragazza. Di minuti ne passano dieci, poi torna: “Mi segua”, dice. Ecco – penso – ci risiamo.

La seguo: andiamo da un altro funzionario. Confabulano e lui mi squadra (giurerei che è quello che mi ha bloccato all’arrivo). Passano altri dieci minuti: “Mi segua”. Via di nuovo, finché non arriva la terza funzionaria: questa si ferma, prende i miei documenti, li guarda, mi richiede chi sono. Rispondo.

“Mi segua”, dice anche lei. E son tre.

Raggiungiamo una specie di leggio. Lei, bassina, passa dietro e sale su uno sgabello per arrivare alla mia altezza. Giuro. Poi dispone lentamente sul ripiano i miei documenti e lo fa con cura, con movimenti studiati. Mi ricorda l’agente Smith al primo interrogatorio del “signor Anderson”.

D’un tratto inizia: vuole sapere chi sono, che cosa faccio, perché sono lì, a fare che cosa, chi mi ha invitato, dove ho dormito, con chi ho dormito, perché sono arrivato due giorni prima dell’evento, perché parto due giorni dopo, cos’è il dld, cosa sono le startup, cos’è un ecosistema dell’innovazione, con quali VC e imprenditori ho parlato, cos’è un VC, di cosa abbiamo parlato, che idea mi sono fatto, se ne avevo già scritto, come ho conosciuto Yossi Vardi, chi diavolo è Yossi Vardi, se ho pagato il viaggio di tasca mia, per che giornali scrivo, che tiratura hanno (giuro), come diavolo avrei fatto a incontrare Shimon Peres, e via così.

52898_10151081934047466_384937290_oLe racconto tutta la storia rispondendo a una domanda per volta. Alla fine fa una pausa, poi sembra voler cambiare argomento. Invece ricomincia a chiedermi le stesse cose, cambiando l’ordine delle domande. Direi che cerca contraddizioni. E probabilmente è preparata a riconoscere le menzogne dai gesti del corpo, magari da Cal Lightman in persona.

Tutto questo succede per ben tre volte. Poi, all’improvviso, la ciliegina sulla torta: mentre parlo abbassa lo sguardo, studia le mie mani, soprattutto la sinistra. “Dov’è la fede?”, chiede fissandomi. “Scusi, ma cosa c’entra”, rispondo. “Lasci che sia io a fare le domande”. “Bene, ne ha altre?”, rispondo senza abbassare lo sguardo. Continua a fissarmi, e per un attimo mi sembra che stia per sorridere. Poi raccoglie uno ad uno i miei documenti e me li porge. “Può andare”, dice.

Era ora.

 

ps: le foto sono mie.

2 pensieri su “Lost in Tel Aviv

  1. henry

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