C’è chi dice 50. Chi 35. Chi addirittura 28. Ognuno è libero di guardare la realtà attraverso le lenti che preferisce. Mettere a fuoco quello che vuole. Ognuno è libero di avvicinarsi al soggetto dello scatto quanto ritiene opportuno. Di invaderne lo spazio fino a rischiare di influenzarlo, modificarlo, persino violentarlo. Far scattare l’otturatore. Fissare il momento. Girare le spalle e andarsene.
Dipende cosa ti interessa. Dipende cos’è che vuoi fotografare davvero. Cosa stai cercando. Di cosa hai bisogno.
La mia Nikon ha su il 300 millimetri da talmente tanto tempo che non riesco più a immaginarla senza. Che ho dovuto imparare a fargli fare tutto ciò che voglio. A convivere con la sua scarsa luminosità e con quei limiti tecnici che mi rendono la vita impossibile ovunque non ci sia la luce piena del sole.
Poco tempo fa ero in ginocchio, la macchina puntata, pronto a scattare. Come spesso accade, mi sono dovuto alzare per farmi indietro. Ero troppo vicino, il campo troppo stretto. Ho fatto dieci passi indietro, mi sono inginocchiato di nuovo. E’ stato in quel momento che mi sono chiesto perché semplicemente non abbia cambiato obiettivo. Perché preferisca allontanarmi piuttosto che scegliere una lente diversa.
Ci ho pensato un po’, poi ho capito. Ho capito che per me le cose rivelano la loro vera natura solo se osservate da lontano. Che credo si debba mettere la giusta distanza tra sé e loro. Abbastanza da vedere il contesto in cui sono immerse, da coglierle insieme al loro mondo. Solo allora puoi comprenderle. Solo allora ha senso girare la ghiera, spingere al limite lo zoom, tornare sul dettaglio. Dettaglio che sarà stato scelto con consapevolezza. Che si rivelerà essere il punto di fuga, il centro di tutto. Che si carica di significato, e diventa sineddoche. Spiegando ogni cosa.
Quando ti allontani a sufficienza, hai la possibilità di vedere le cose per quello che sono. Puoi finalmente scorgerne i reali contorni, individuarne limiti e pregi.
E, se capisci che non ne vale la pena, rinunciare a scattare.