Arrivano in gruppo. Una specie di falange familiare che avanza compatta, coesa, determinata. Dove, insieme a chi soffre, c’è chi chiede, chi dispone, chi sostiene e consola. Oppure alla spicciolata: quando con il taxi, quando soli in automobile, neanche troppo spesso in ambulanza. Uno persino in bici, guidando sotto la pioggia con l’unico braccio sano.
Dal francese: “smistamento, cernita”. Tutti passano dalla stanza denominata “triage”. In piedi, seduti o sdraiati che siano, prendono un numero e un colore su quattro. Quel colore parla di loro, racconta un po’ della loro storia, prevede qualcosa del loro futuro. Per esempio, il verde porta una buona notizia e una cattiva: la buona è che le cose non vanno poi così male. E puoi ringraziare il tuo Dio, per questo.
La cattiva è che non sei una priorità e sei in un Pronto Soccorso del Centro Italia. E puoi maledire il tuo Dio per questo. Perché se anche si può parlare di Soccorso, di certo non si può dire che sia “Pronto”. Meglio mettersi comodi. Armarsi di santa pazienza.
Non sono qui per me, ma è come se lo fossi, tanto mi è cara la persona che accompagno.
Sediamo insieme mentre intorno a noi ruota un mondo dolente, impaurito, esausto. Mentre ci avvolge l’odore della paura e del vomito. Qualcuno scherza, prova a distrarsi mentre attende una visita per qualcosa che non sembra essere grave. Qualcun altro invece riceve la peggiore delle notizie, mentre incredulo si sorregge a chi accanto già versa le prime lacrime. Grande dolore e dignità si sommano in una sofferenza composta, piena di pudore, che mi costringe a distogliere lo sguardo.
Un povero cristo arriva saltellando. Gli danno una sedia a rotelle. È a un metro da me è non posso fare a meno di sentire che è caduto dalle scale. Ha una caviglia nera e gli dice assai male, perché “da noi la domenica pomeriggio l’ortopedico non accetta pazienti”. Nel senso che non c’è. Come anche l’otorino, del resto.
Ma pure questo tizio, che cazzo si va a rompere un osso la domenica pomeriggio, no? Cosa gli salta in testa? “Guardi che lei prima delle sette è impossibile che se ne vada da qui”, gli dice l’infermiera. “Ma io sono venuto in autobus e dopo le sette non ce ne sono più” risponde confuso il povero cristo, sintetizzando magistralmente la portata del suo piccolo dramma e dell’inadeguatezza di un sistema sanitario ormai allo sbando. Poi se ne resta lì seduto, in disparte sulla sua sedia a rotelle. La scarpa destra in grembo, ormai inutile. Un’icona vivente.
Intendiamoci, qui il personale è abbastanza umano e cortese. Fermo, come spesso è necessario essere di fronte all’isteria non tanto di chi soffre, quanto di chi accompagna. Eppure cortese. Peccato non abbia tregua, non possa mai fermarsi, sia schierato in numeri drammaticamente inadeguati. La cosa ha molti effetti collaterali: uno di questi è che gli infermieri diventano straordinari campioni del dribbling. Una roba da serie A.
Intanto alle mie spalle un gruppo di familiari assortiti corona la settima ora d’attesa commentando con fervore l’incontro Berlusconi – Renzi. Parte di loro è d’accordo, parte contraria e indignata. Qualcuno cita persino “spinosapuntoit”. Nell’insieme, l’effetto “bar dello sport” è potente e inesorabile, senza peraltro il conforto di un caffè al banco.
Presto il serrato confronto si evolve verso altri temi, quindi sconfina rapidamente nel calcio. Il bello è che la conversazione è identica a quella che l’ha preceduta: stessi verbi, stessi aggettivi, stessi costrutti, stessi protervia e qualunquismo. Sono cambiati solo nomi e sostantivi, che risuonano nella grigia sala d’attesa del Pronto Soccorso come una messa di requiem per questo paese sgangherato e senza futuro, dove la gente non distingue più la politica dal calcio, la sala d’attesa di un ospedale dallo studio di “Uomini e donne”,
Poi alla fine arriva il momento della visita, dell’inattesa umanità, della professionalità nonostante tutto. Nonostante i posti letto che non ci sono. Nonostante la selva di lettini buttati alla meglio nei corridoi. Dei pazienti accuditi dove si può, come si può. Perché nessuno resti indietro. Perché tutti, in qualche modo, ce la si possa fare. Perché il giuramento di Ippocrate non è solo un mucchio di parole.
E allora un po’ il cuore si rinfranca.
Fuori intanto piove che Dio la manda.