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I maestri dello scatto alle prese con la rivoluzione digitale

Chiudere l’anno, all’ultimo giorno, con il pezzo su l’Espresso a cui tengo di più: quello, per intenderci, dove intervisto il maestro Gianni Berengo Gardin, il premio Pulitzer Nick Ut, il Fashion Photographer Amedeo Turello e l’americano Craig Semetko per parlare con loro di come sono cambiati la fotografia e il loro lavoro con l’avvento del digitale. E dove Andreas Kaufmann, amministratore delegato di Leica Camera, insieme con Renato Rappaini, direttore generale di Leica Italia, ci aiutano a capire in che direzione sta andando l’intero settore.

enjoy

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Nick Ut che fotografa Andreas Kaufmann – CEO Leica – mentre entrambi sono fotografati da Craig Semetko (che fotografa loro e me)

Dal sito de L’Espresso: “Non pensare, guarda, punta, scatta. Quando la fotografia diventa Pop”


«Non pensare. Guarda, punta, scatta. Per ragionare c’è sempre tempo. Per correggere gli errori non mancano software quasi onnipotenti. L’importante è catturare l’attimo alla meglio, fissare l’immagine usando quello che ci si trova in tasca o nella borsa: spesso è lo smartphone; a volte è una reflex o una mirrorless di fascia alta; sempre più raramente una compatta.
E’ l’era della snapshot photography, degli scatti eseguiti in modo casuale e imperfetto: semplificando al massimo, oggi tutti fanno foto senza bisogno di essere fotografi, senza costi per le attrezzature, di sviluppo o di stampa. Senza troppe pretese, ma con implacabile determinazione a condividere tutto o quasi online.
La fotografia (o almeno una parte consistente di essa) è cambiata: è diventata Pop».

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Su L’Espresso, la guerra globale tra industria discografica e pirateria digitale (Aggiornato)

Dopo aver parlato di start up all’italiana e di open source nella PA, è letteralmente tempo di “cambiare musica”: su L’Espresso di oggi, pagine 134 – 137, trovate un pezzo scritto a quattro mani con Diletta Parlangeli (cui peraltro va il merito di aver individuato l’argomento) e intitolato “Se il Pc spegne la musica”. Questo il catenaccio:

“Le Major fanno chiudere i siti e chiedono leggi anti-download. Ma la repressione rischia di essere un boomerang. Così si cercano altre strade”.

Di seguito, la copertina del pezzo nella sua versione per iPad. Subito sotto, l’incipit del pezzo, tanto per invogliarvi a leggerlo. Poi un’anticipazione.

 

 

La pirateria online? «Non si può combattere. Le Major dovrebbero accettare la realtà e sfruttare il fenomeno a loro vantaggio”.  E’ la voce di Dave Kusek – Vice Presidente del Berklee College of Music e co-autore di “The future of Music” – che suona fuori dal coro mentre si consuma un conflitto globale tra l’industria che produce musica e chi la scarica illegalmente in rete. Ultima battaglia della lunga guerra, la chiusura del sito di file hosting Megaupload, servizio cui 150 milioni di utenti nel mondo affidavano i proprio file e che le autorità statunitensi hanno sequestrato con un’operazione senza precedenti.

La “crociata” delle Major

D’altronde, è contro la pirateria digitale che l’industria punta il dito quando si parla di crisi del settore. Prova ne è il Digital Music Report 2012, ultima edizione dell’annuale ricerca realizzata per conto della Federazione internazionale dell’Industria Fonografica (IFPI): «Più di un utente su 4 (28%) fruisce illegalmente di musica online». E se è pur vero che, nel 2011, il mercato digitale globale è cresciuto dell’8% per superare i 5,2 miliardi di dollari di ricavi, altrettanto vero è che «la crescita registrata non riesce a temperare la perdita del mercato fisico, che prima reggeva il 40-50% del fatturato» come fa notare Alberto Cusella, discografico con alle spalle vent’anni in Warner. «La musica non è affatto in crisi. Ad essere in crisi è il mercato» aggiunge.

Il seguito su L’Espresso di oggi (“L’uomo che fa tremare il Centro Sinistra”) pagine 134- 137

PS: quest’anno con Diletta e alcuni degli intervistati saremo anche al Festival del Giornalismo di Perugia, dove abbiamo organizzato un panel per discutere di come cambia l’informazione musicale nell’era post-MySpace.

A breve dettagli anche su questo, so stay tuned!

Update: il pezzo ora è disponible online: “Discografici, reputazione k.o.

Update 2: sono disponibili anche le info relative al panel che abbiamo organizzato per il Festival del Giornalismo di Perugia, intitolato “Il giornalismo musicale nell’era del dopo MySpace

L’Italia delle startup è (anche) su L’Espresso (online)

Da oggi sul sito de L’Espresso:

 

Anche l’Italia ha le sue start up
Siamo in fondo alle classifiche europee per investimenti in aziende innovative. Eppure qualcosa si muove. Anzi molto. E questo può essere l’anno della svolta

Il Venture Capital italiano nel 2011 valeva un dollaro per ogni cittadino. Lo dicono i dati diffusi a fine dicembre nella ricerca “Theory Vs Reality – Venture Capital in Europe”, realizzata dagli svizzeri di Verve Capital Partners. Meglio di noi hanno fatto non solo i Paesi più sviluppati, ma anche nazioni come l’Austria (10 dollari), il Portogallo (7) e persino la Grecia (3). In classifica, insomma, siamo ultimi. Il che fa un po’ specie in un momento in cui il mantra è “rilanciare l’economia”.

Quindi il campanello d’allarme suona forte e chiaro: perché l’Italia non è un Paese per start up? E può diventarlo? Se sì, come?

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Qui il post di presentazione del servizio con un incipit più esteso di quello finito sul cartaceo.

L’italia delle startup è su L’Espresso

Dov’è l’Italia delle startup” è il titolo dell’ultimo pezzo scritto per L’Espresso e pubblicato sul numero di oggi (“Come ti prendo gli evasori”) dopo aver sentito Marco Palladino (Mashape), Antonio Tomarchio (Beintoo), Marco Magnocavallo (Principia), Gianluca Dettori (DPixel), Barbara Labate (Risparmiosuper), Guk Kim (Cibando), Mirko Trasciatti (Fubles), Max Ciociola (Musixmatch) e Riccardo Donadon (H-Farm).

Eccone di seguito l’attacco, qui più lungo e articolato di quello uscito sul giornale dove è stato ridotto e adattato per motivi di spazio:


Un dollaro a testa. Se nel 2011 il Venture Capital italiano avesse deciso di distribuire tra tutti gli italiani il denaro che ha investito in startup tecnologiche, tanto ci sarebbe arrivato in tasca. Non un soldo in più.

E’ poco? Secondo i dati diffusi a fine dicembre nella ricerca intitolata “Theory Vs Reality – Venture Capital in Europe”, realizzata dagli svizzeri di Verve Capital Partners, il VC nostrano è ultimo tra quelli europei per investimenti in “start-up innovative che potenzialmente possono dare nuova linfa alla creazione di posti di lavoro e pilotare lo sviluppo dell’industria”. Meglio di noi hanno fatto “piccolo nazioni” come l’Austria (10$), il Portogallo (7$) e persino la Grecia (3$).

Quindi sì, è poco: specie in un momento di profonda crisi dei mercati internazionali, dove il mantra è “rilanciare l’economia a tutti i costi”. «Il problema è anche che chi investe in Italia non sa comunicare il proprio operato, trasmettendo l’idea di un mercato immobile che non corrisponde alla realtà», fa tuttavia notare Marco Magnocavallo, imprenditore di lunga esperienza e oggi Partner del Venture Capital italiano Principia (Ex Quantica).

In ogni caso il campanello d’allarme suona forte e chiaro: perché l’Italia non è un Paese per startup? E può diventarlo? Se sì, come?

Lungi dal voler esaurire l’argomento, questo articolo costruito su le testimonianze di chi si “sporca le mani” nel settore vuole essere soprattutto uno stimolo alla discussione sul tema.

Quindi commenti e integrazioni sono – come sempre – benvenuti.

UPDATE: il pezzo è disponibile anche sul sito de L’Espresso