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L’Italia delle startup è (anche) su L’Espresso (online)

Da oggi sul sito de L’Espresso:

 

Anche l’Italia ha le sue start up
Siamo in fondo alle classifiche europee per investimenti in aziende innovative. Eppure qualcosa si muove. Anzi molto. E questo può essere l’anno della svolta

Il Venture Capital italiano nel 2011 valeva un dollaro per ogni cittadino. Lo dicono i dati diffusi a fine dicembre nella ricerca “Theory Vs Reality – Venture Capital in Europe”, realizzata dagli svizzeri di Verve Capital Partners. Meglio di noi hanno fatto non solo i Paesi più sviluppati, ma anche nazioni come l’Austria (10 dollari), il Portogallo (7) e persino la Grecia (3). In classifica, insomma, siamo ultimi. Il che fa un po’ specie in un momento in cui il mantra è “rilanciare l’economia”.

Quindi il campanello d’allarme suona forte e chiaro: perché l’Italia non è un Paese per start up? E può diventarlo? Se sì, come?

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Qui il post di presentazione del servizio con un incipit più esteso di quello finito sul cartaceo.

L’italia delle startup è su L’Espresso

Dov’è l’Italia delle startup” è il titolo dell’ultimo pezzo scritto per L’Espresso e pubblicato sul numero di oggi (“Come ti prendo gli evasori”) dopo aver sentito Marco Palladino (Mashape), Antonio Tomarchio (Beintoo), Marco Magnocavallo (Principia), Gianluca Dettori (DPixel), Barbara Labate (Risparmiosuper), Guk Kim (Cibando), Mirko Trasciatti (Fubles), Max Ciociola (Musixmatch) e Riccardo Donadon (H-Farm).

Eccone di seguito l’attacco, qui più lungo e articolato di quello uscito sul giornale dove è stato ridotto e adattato per motivi di spazio:


Un dollaro a testa. Se nel 2011 il Venture Capital italiano avesse deciso di distribuire tra tutti gli italiani il denaro che ha investito in startup tecnologiche, tanto ci sarebbe arrivato in tasca. Non un soldo in più.

E’ poco? Secondo i dati diffusi a fine dicembre nella ricerca intitolata “Theory Vs Reality – Venture Capital in Europe”, realizzata dagli svizzeri di Verve Capital Partners, il VC nostrano è ultimo tra quelli europei per investimenti in “start-up innovative che potenzialmente possono dare nuova linfa alla creazione di posti di lavoro e pilotare lo sviluppo dell’industria”. Meglio di noi hanno fatto “piccolo nazioni” come l’Austria (10$), il Portogallo (7$) e persino la Grecia (3$).

Quindi sì, è poco: specie in un momento di profonda crisi dei mercati internazionali, dove il mantra è “rilanciare l’economia a tutti i costi”. «Il problema è anche che chi investe in Italia non sa comunicare il proprio operato, trasmettendo l’idea di un mercato immobile che non corrisponde alla realtà», fa tuttavia notare Marco Magnocavallo, imprenditore di lunga esperienza e oggi Partner del Venture Capital italiano Principia (Ex Quantica).

In ogni caso il campanello d’allarme suona forte e chiaro: perché l’Italia non è un Paese per startup? E può diventarlo? Se sì, come?

Lungi dal voler esaurire l’argomento, questo articolo costruito su le testimonianze di chi si “sporca le mani” nel settore vuole essere soprattutto uno stimolo alla discussione sul tema.

Quindi commenti e integrazioni sono – come sempre – benvenuti.

UPDATE: il pezzo è disponibile anche sul sito de L’Espresso

Jeremy Rifkin Brings the Third Industrial Revolution to Rome (Teatro Valle Occupato)

When Jeremy Rifkin comes to town, it’s worth going to see him and ask a pair of questions. The first time I met him, last year, he was in Rome to talk about what he called  “The Empathic Civilization”.

This time he took a speech about the main topics of his new book, “The Third Industrial Revolution“, which he presented in Rome during a lesson-like event in the wonderful Teatro Valle Occupato.

His talk lasted for about an hour, during which he stated that we’re on the verge of extinction and explained why. Then, he went on explaining what has to be done to “save our planet from ruin” and, in the end, addressed the audience as follows:

“You have to turn this world around. You have to get it right.”

The following video (in English) is a short footage of the event featuring some of the people who where there, the very last part of Rifkin’s speech and a two-questions interview we (Diletta and me) shot with him before he left.

Enjoy

Carolyn McCall (GMG): le paywall soffocheranno il nostro giornalismo

Dal Guardian Media Group (GMG), gruppo editoriale dietro Guardian e Observer, prendono ancora una volta posizione contro la messa a pagamento dei contenuti giornalistici online. La prima a schierarsi contro i paywall era stata Emily Bell, digital director di Guardian News & Media (GNM), che aveva definito “stupida” l’idea di far pagare gli utenti. Qualche tempo dopo era poi intervenuto Alan Rusbridger, editor del Guardian, il quale aveva rincarato la dose definendo “folle” pensare che mettere i contenuti online a pagamento potesse bastare da solo a risolvere la crisi dei media.

Ora a prendere la parola è Carolyn McCall, CEO di GMG: in un’intervista con il Financial Times, essa sostiene che non c’è alcuna prova del fatto che i cosiddetti paywalls possano funzionare e generare entrate per i giornali. “It is not really the way the web works”, dice anzi la McCall, e aggiunge: “It is the wrong thing to do right now because the jury is out about whether that is the way consumers are going to get information. We will watch what happens.”

Un approccio che, pur confermando la linea precedente, a ben guardare appare molto più “aperto” e possibilista che in passato. Sebbene infatti il CEO di Guardian Media Group affermi chiaramente che le paywall finirebbero con il “soffocare il nostro giornalismo”, esso ammette contemporaneamente che la sua azienda aspetta di vedere come si evolve la situazione prima di decidere il da farsi. Se a questo si aggiunge che, nel corso dell’intervista, la McCall si lascia anche sfuggire che alcuni “contenuti specialistici” andrebbero pagati e che MGM ha già sottoposto al vaglio “six different pay models”, allora il quadro è completo: il Guardian Media Group non vuole far pagare agli utenti i contenuti online, ma è comunque ancora all’affannata ricerca di un nuovo modello di business che ne garantisca la sopravvivenza.

Il New York Times farà pagare i contenuti online

Settembre 2007: con una mossa che coglie tutti di sopresa, il New York Times apre gratuitamente al pubblico i suoi archivi storici online. Un enorme tesoro di informazioni esce dal recinto dei contenuti a pagamento, dove fruttava al giornale circa 10 milioni di dollari all’anno. Denaro che il management della testata conta di recuperare grazie all’advertising online.

Gennaio 2010: voci insistenti e autorevoli danno il NYT sul punto di mettere a pagamento tutti i suoi contenuti online. Il modello è quello del Wall Street Journal, dove la testata consente all’utente di navigare gratis alcuni articoli per poi bloccarlo e proporgli di abbonarsi.

Nella distanza siderale che separa queste notizie, la misura dell’impatto devastante che la crisi economica planetaria sommata al radicale mutamento nelle abitudini dei lettori (sempre più connessi in rete) hanno avuto (e stanno avendo) sull’intero sistema della stampa tradizionale.

Stampa che non vede quasi passare giorno senza che qualcuno ne annunci la fine predestinata: ultimo in ordine di tempo è stato Alan Mutter, secondo il quale “nel 2025 la popolazione dei lettori di quotidiani in Usa sarà inferiore di un terzo e fra 30 anni si ridurrà del 50%”.

Risorse:

– Alan Mutter: How long can print newspapers last? (Parte 1; Parte 2)

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Wikipedia, “contributors” in fuga?

Con 325 milioni di visitatori al mese e tre milioni di contributori attivi, Wikipedia è uno dei più riusciti esperimenti di crowdsourcing al mondo, oltre che il quinto sito per importanza nel web mondiale. Una repository del sapere universale raccolto con il contributo di molti e fruibile a tutti. L’enciclopedia del presente e del futuro.

Uno dei miracoli di Internet reso possibile dalla collaborazione e dalla buona volontà degli utenti che ora, come annuncia il Wall Street Journal citando una ricerca spagnola, improvvisamente vede moltiplicarsi per dieci il numero di “contributors” che abbandona l’attività.

Nei primi tre mesi del 2008 erano stati 4900 i volontari a voltare le spalle a Wikipedia: un calo fisiologico, che in passato era stato regolarmente compensato dal subentro delle “nuove leve”. Ora però la ricerca condotta da Felipe Ortega presso l’Universidad Rey Juan Carlos di Madrid, rivela che le defezioni sono state ben 49mila nel solo primo trimestre 2009.

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Licenziare l’agenzia PR con un commento

Rafat Ali è noto ai più per essere “Founder, Publisher & Editor” del seguitissimo blog Paidcontent.org. Lo scorso 20 agosto il blogger è stato oggetto di una (peraltro leggera) presa in giro ad opera di Dan Frommer che, dalle pagine di Silicon Alley Insider (SAI), ha rilanciato un comunicato stampa emesso a nome del signor Ali dalla sua agenzia PR, la “Brainerd Communicators”. Nel testo incriminato, si attribuiscono al blogger affermazioni sul futuro della digital music industry giudicate da Frommer (secondo me a ragione) un po’ sciocche.

La risposta di Ali non si è fatta attendere. Furibondo, questi ha reagito commentando per primo il post in questione con poche ma letali parole:

“I hate our agency. They’re morons. There is a reason why we’re getting rid of them.”

Che non si tratti di una semplice battuta ma del reale intento di disfarsi dell’agenzia PR, sembrerebbe confermarlo un successivo post in cui ancora Frommer dà conto di un’accorata richiesta di “rettifica” delle proprie affermazioni inviatagli dalla stessa Brainerd:

Rafat was responding to a post we wrote about a PR pitch that Brainerd sent out that made Rafat look a bit silly, at least in our eyes.

We didn’t mention Brainerd in our post on that pitch–we stripped out the identifying info and simply included a screen shot of the pitch itself. But the sting of getting fired in a blog comment apparently sent the folks at Brainerd over the edge.

In an email, Brainerd Managing Director Michele Clarke asked us for a “correction” based on an apparent “mischaracterization” of the firm in our post. (Again, we never mentioned the firm, so Michele was presumably referring to Rafat’s characterization of his agency–which he never named–as “morons.”)

Un aneddoto gustoso che, in primo luogo, dice molto sulla brutalità con cui i giovani imprenditori americani del web 2.0 gestiscono pubblicamente le “crisi d’immagine”, condannando senza alcuna remora la propria agenzia Pr alla gogna mediatica quando lo ritengono necessario; in secondo luogo, l’episodio suggerisce una domanda: cosa sarebbe successo se la stessa cosa fosse accaduta oggi in Italia, con imprenditori e Pr manager nostrani come protagonisti?

Nuvole nere si addensano sul futuro del nanopublishing statunitense

Nei mesi passati abbiano spesso dato conto della politica di taglio dei costi messa in atto nel network Gawker dal patron Nick Denton, praticamente l’inventore del nanopublishing.

Ora una fonte autorevole come ReadWriteWeb informa che anche Weblogs Inc, l’altro grande nanopublishing a stelle e strisce acquisito da AOL nel 2005, naviga in cattive acque.

Secondo Marshall Kirkpatrick, già blogger al soldo di Weblogs Inc ai tempi d’oro in cui il gruppo era guidato da Jason Calacanis,

“A source close to AOL has informed ReadWriteWeb that it will be shutting down and relaunching the Weblogs Inc. “Lifestyle Blogs” as online magazines”.

Se la notizia venisse confermata, si tratterebbe in pratica di una “riconversione” in “tradizionale” rivista online di un numero di blog pari a circa 1/4 dell’intero network. Un radicale ritorno al passato che, se confermato, oltre a riportare in primo piano gli annosi problemi di AOL metterebbe anche in discussione il futuro stesso del nanopublishing.

Per ora mancano le conferme e c’è solo la parola di Kirkpatrick, che tuttavia si dice sicuro delle informazioni in suo possesso.

AOL dal canto suo ha provveduto a smentire lo scenario descritto da ReadWriteWeb, spiegando anzi che

“We are so enthusiastic about the growth potential of our Living blogs that we need people to spend MORE time on them, and we are asking for more of a commitment from our lead bloggers than has been needed in the past so that we can provide consumers with more engaging and interactive experiences across our sites…”.

Scopriremo presto chi dei due dice la verità.

Microsoft manda a casa 5mila persone

Una ventina di giorni fa circolavano voci secondo le quali Microsoft avrebbe mandato a casa ben 15mila persone su 90mila in forze all’azienda. Dopo varie smentite, da Redmond hanno infine fatto sapere che i “layoff” ci saranno, ma interesseranno “solo” 5mila unità.

Alcune cose da notare:

1) E’ la prima volta nella sua storia che Microsoft ricorre a licenziamenti per fronteggiare una crisi economica.

2) Come fa notare Elizabeth Montalbano, salute e prosperità dell’azienda sono ancora troppo dipendenti dal business incentrato sulla vendita di Windows nelle sue varie declinazioni, attualmente affossata dal calo di vendite dei pc registrato a livello planetario. Lo sforzo fatto finora a Redmond per diversificare le attività commerciali va nella direzione giusta, ma non è ancora abbastanza.

3) Parlando della crisi, Steve Ballmer ha fornito una quadro della situazione assai poco incoraggiante, esponendo la tesi che non ci sarà un rimbalzo e il settore non tornerà (almeno nel breve periodo) prospero come un tempo:

“As things go down, they reset. The economy shrinks and then it doesn’t rebound, it rebuilds from a lower base. We’re not expecting a bounce.”

4) Subito gli ha fatto eco il Ceo di Google Eric Schmidt, che pur presentando un altro trimestre chiuso dalla sua azienda ben al di sopra delle aspettative, ha nuovamente espresso preoccupazione per i mesi a venire. Non si è tuttavia parlato di licenziamenti.

5) I tagli al personale (1400 dei quali effettivi a partire da subito) verranno scaglionati nei prossimi 18 mesi, interessaranno tutte le divisioni di business e colpiranno soprattutto la sede di Seattle, dove lavora la maggior parte del personale Microsoft.

New Economy, da Paese delle Meraviglie a Terra Desolata

Tagliare i costi. Riorganizzare. Ottimizzare. Non passa giorno senza che la stampa annunci nuovi licenziamenti (effettivi o rivelati come prossimi dai soliti anonimi bene informati) che come una mannaia si abbattono sui lavoratori della new economy.

Esempio 1: partiamo con qualcosa di semplice. A ottobre Loic Le Meur, ex responsabile di Six Apart Europe ed oggi CEO di Seesmic, annuncia il licenziamento di sette dipendenti. Quisquilie direte voi. E’ un terzo del suo staff, rispondo io.

Esempio 2: nel corso di tutto 2008 Nick Denton, praticamente l’inventore nano-publishing con Gawker.com nonché il primo a trarne guadagni di assoluto rilievo, ha provveduto in varie riprese a chiudere i blog meno produttivi. I vari editor sono stati a volte riassorbiti nei blog ancora funzionanti, più spesso “reimmessi” sul mercato. E questo nonostante gli introiti pubblicitari per Gawker siano cresciuti del 39 per cento nel 2008.

Esempio 3: la cronaca più recente racconta di “riorganizzazioni” da numeri a 3, 4 e persino 5 cifre. Sun Microsystems, per citare qualcuno, deve “sacrificare” ben 6000 persone, circa il 18 per cento della sua forza lavoro, nel processo di ristrutturazione che ne dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) salvare le sorti.

Esempio 4: che dire poi di Yahoo!? Il motore di ricerca uscito con le ossa rotte dalla “danza della morte” con Microsoft e Google ha comunicato già ad ottobre il licenziamento di circa 1500 persone, ovvero il 10 per cento della propria forza lavoro.

Esempi 5 e 6: La cronaca di queste ore è ancora meno incoraggiante delle premesse. Da un lato c’è Microsoft, che voci insistenti (seppur non confermate) vogliono prossima a licenziare 15mila dipendenti su 90mila, la maggior parte dei quali distribuiti tra Europa, Medio Oriente e Africa.

Dall’altro c’è il gigante (dai piedi d’argilla) Sony che – rivela The Times – sarebbe ad un passo da una radicale ristrutturazione che dovrebbe lasciare a terra non meno di 8mila dipendenti.

L’elenco potrebbe andare avanti a lungo, ma la sostanza non cambia: la crisi c’è, sta investendo pesantemente il mondo Hi-Tech e sta producendo un numero assai preoccupante di disoccupati prima ancora che – come mi suggeriva ottimista Tim O’Reilly – “eliminare i rami secchi del web 2.0“.

Il fatto che fosse stata abbondantemente prevista non consola. Cosa ancora peggiore, preoccupano persino le prospettive di spesa per il 2009 degli un tempo voraci consumatori americani, in barba alla pompa magna di eventi come CES e MacWorld, ormai privi della loro vera ragion d’essere.

Ci aspettano tempi duri.