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Porn industry, the Internet innovation engine we (prefer to) ignore

Sometimes ago I wrote a long article for L’Espresso (in Italian) on the amazing and mostly underestimated role of Porn Industry in the development of Internet and its technologies. The same technologies and services we use everyday when we start a videochat , watch a video via streaming or check-in on services like Foursquare.

patchenbarss300That piece wouldn’t be possible without an enlightening chat with Patchen Barss, a canadian journalist who has written about science, technology and culture for almost 20 years. In the following interview, the author of “The Erotic Engine“, describes “the powerful influence of pornography on advances in mass communication”.

enjoy.

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Mr. Barss, let’s start explaining why and how the Porn industry can be defined as the “erotic engine” powering (among others things) the development of internet technologies.

It’s easy to forget how terrible Internet technology was in the late 1980s and early 1990s. Expensive, unreliable connections, complicated command-line interfaces and weird connection protocols. A million things could go wrong, and even when it all worked, it was painfully slow and glitchy. Looking back, it’s difficult to believe anyone stuck with the technology long enough for it to improve.

The people who put in the work to make the Internet go in those early days often did so because the reward was pornography – first text, then images, then video. Pornography created the demand for Internet access, and also created demand for higher speeds, more reliable connections, and better interfaces. Many estimates suggest that sexual content represented as much as 80 percent of traffic on the pre-World-Wide-Web Internet.

Does this apply everywhere or is it just a US phenomenon?

Online pornography usage statistics vary from country to country, but there is no doubt that pornography had a global influence on technological development.

Is this influence still working today, when porn actors are adopting web2.0 technologies to disintermediate porn companies and sell their “products” by themselves?

Pornography has its greatest influence on new technologies – it was more influential over the early internet than today’s online sphere. Once a technology becomes fast, familiar and easy to use, the mainstream tends to take over and push pornography to the margins. This, to some degree has happened to the Internet – obviously there is still a huge pornographic presence online, but there’s now much more of everything else.

You touch on a good point, though – today’s Internet doesn’t represent the end of technological evolution. As new communications channels evolve – Web 2.0, haptics, virtual worlds – pornography and sexual content continue to exert their influence. There will always be new forms of communication that are as unfamiliar and weird as the Internet once was, and the early adopters of such technologies will almost certainly use them for sexual purposes.

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Giornalisti e citizen journalist, c’è posto per (e bisogno di) tutti

Internet fa bene o male al giornalismo? Una domanda ricorrente, che da anni risuona nei convegni, durante i telegiornali, persino davanti ai banconi del bar. Ma se la domanda non è cambiata, a mutare nel tempo è stata sicuramente la risposta. All’inizio, l’opinione diffusa tra gli operatori del settore era che blog prima e social network poi fossero come una pistola carica nelle mani di giornalisti improvvisati, incapaci di verificare le fonti o distinguere la verità dalle fandonie, ma in compenso abilissimi nel diffondere e rilanciare balle incontrollabili e spesso anche pericolose.

Questo forse in parte era vero e in parte –obiettavano gli entusiasti del nuovo “giornalismo dal Basso” – un tentativo estremo ed inutile della stampa di difendere posizione, ruolo e privilegi. Quale che fosse la ragione, quel periodo di duro confronto sembra essere ormai alle spalle: la conferma arriva da alcune testimonianze raccolte durante la seconda giornata del Social Media World Forum a margine di un panel dedicato a “Social media and the news”. Il primo a dare un’idea precisa del nuovo corso è Mark Jones, Global Community Editor per Reuters, secondo il quale “i media sociali stanno migliorando il giornalismo, perché mettono a disposizione di chi fa informazioni nuove e valide fonti, diffondendo informazioni in un formato chiaro e semplice da usare”.

Gli fa eco Nick Petrie, Social Media & Campaigns Editor per The Times, che arricchisce il quadro sostenendo che “uno dei principali cambiamenti introdotti nella professione dall’avvento dei social media è che i giornalisti non hanno più il controllo delle storie che raccontano”, perché nel momento in cui le pubblicano esse appartengono ai lettori. Questi si guardano bene dal fruirle passivamente e le rilanciano, integrano, commentano oppure demoliscono mentre ci costruiscono intorno una conversazione alla quale il giornalista può e deve partecipare, che può provare a indirizzare ma che non può governare. E questo perché, dice sempre Petrie, nel moderno mondo dei media, “una volta pubblicata, la storia di ognuno diventa la storia di tutti”.

In questo contesto incredibilmente dinamico, dove l’ informazione è liquida e scorre ad altissima velocità, il mestiere del giornalista non passa certo di moda, ma assume una funzione nuova e richiede nuove skill: se infatti è vero che la “verifica delle nuove fonti è ancora una forma d’arte in via di definizione” – come ammette ironicamente Mark Jones – altrettanto vero è che il lavoro del giornalista si focalizza sempre di più sulla “content curation”, ovvero sulla selezione, la verifica dell’attendibilità, la cura (di forma, struttura), e la presentazione dei contenuti giornalistici dispersi nel world wide web. Oltre che ovviamente la produzione di approfondimenti ed analisi.

E se la cura dei contenuti diventa centrale alla professione, magari agevolata dal fatto che i social media consentono al giornalista di sentire il polso del lettore e capire cosa gli interessa davvero, allora la velocità di pubblicazione passa – finalmente – in secondo piano. Perché nessuna testata, per quanto grande, può competere con un esercito composto da milioni di potenziali citizen journalist, e perché il fattore differenziante, il focus del lavoro giornalistico diventa l’analisi delle cose e dei fatti. Che per definizione richiede tempo.

“Il giornalismo è cambiato, passando dal controllo dell’agenda delle notizie alla content curation e alla produzione di contenuti di qualità”, spiega infatti Peter Bale, Vice Presidente e General Manager per Cnn. Che poi sentenzia: “Un pezzo di 600 parole pubblicato due giorni dopo un evento ormai è morto in partenza. Oggi è tutto breaking news da 140 caratteri cui devono fare seguito approfondimenti di qualità”. Ed è qui che i professionisti del mestiere possono e devono fare la differenza.

Altro tema emerso a Londra riguarda la presenza del giornalista in rete: nel web sociale, dove la personalità emerge prepotentemente dietro la professionalità e dove il confine tra pubblico e privato diventa labile fino a sparire, “ogni giornalista è un brand” – afferma ancora Peter Bale – e deve svolgere un ruolo di ambasciatore presso gli utenti, contribuendo in prima persona all’immagine e alla credibilità della propria testata.

E quando infine chiediamo agli intervistati quali sono secondo loro le abilità fondamentali che ogni giornalista moderno dovrebbe avere, questi rispondono all’unanimità: deve abitare e conoscere i social media, sapere mettere in relazione fatti, notizie e fonti per effettuare puntuali verifiche incrociate e, soprattutto, deve essere (molto) scettico.

NB: Questo pezzo è tratto da Wired.it dove è stato pubblicato sotto licenza Creative Commons.

L’italia delle startup è su L’Espresso

Dov’è l’Italia delle startup” è il titolo dell’ultimo pezzo scritto per L’Espresso e pubblicato sul numero di oggi (“Come ti prendo gli evasori”) dopo aver sentito Marco Palladino (Mashape), Antonio Tomarchio (Beintoo), Marco Magnocavallo (Principia), Gianluca Dettori (DPixel), Barbara Labate (Risparmiosuper), Guk Kim (Cibando), Mirko Trasciatti (Fubles), Max Ciociola (Musixmatch) e Riccardo Donadon (H-Farm).

Eccone di seguito l’attacco, qui più lungo e articolato di quello uscito sul giornale dove è stato ridotto e adattato per motivi di spazio:


Un dollaro a testa. Se nel 2011 il Venture Capital italiano avesse deciso di distribuire tra tutti gli italiani il denaro che ha investito in startup tecnologiche, tanto ci sarebbe arrivato in tasca. Non un soldo in più.

E’ poco? Secondo i dati diffusi a fine dicembre nella ricerca intitolata “Theory Vs Reality – Venture Capital in Europe”, realizzata dagli svizzeri di Verve Capital Partners, il VC nostrano è ultimo tra quelli europei per investimenti in “start-up innovative che potenzialmente possono dare nuova linfa alla creazione di posti di lavoro e pilotare lo sviluppo dell’industria”. Meglio di noi hanno fatto “piccolo nazioni” come l’Austria (10$), il Portogallo (7$) e persino la Grecia (3$).

Quindi sì, è poco: specie in un momento di profonda crisi dei mercati internazionali, dove il mantra è “rilanciare l’economia a tutti i costi”. «Il problema è anche che chi investe in Italia non sa comunicare il proprio operato, trasmettendo l’idea di un mercato immobile che non corrisponde alla realtà», fa tuttavia notare Marco Magnocavallo, imprenditore di lunga esperienza e oggi Partner del Venture Capital italiano Principia (Ex Quantica).

In ogni caso il campanello d’allarme suona forte e chiaro: perché l’Italia non è un Paese per startup? E può diventarlo? Se sì, come?

Lungi dal voler esaurire l’argomento, questo articolo costruito su le testimonianze di chi si “sporca le mani” nel settore vuole essere soprattutto uno stimolo alla discussione sul tema.

Quindi commenti e integrazioni sono – come sempre – benvenuti.

UPDATE: il pezzo è disponibile anche sul sito de L’Espresso

Siamo tutti “editor di noi stessi”

La settimana scorsa Padre Antonio Spadaro ha pubblicato sul blog Cyberteologia un’interessante riflessione intitolata “La ‘credibilità’ dell’informazione in Italia e il ‘servizio pubblico’”.

Ecco di seguito uno dei passaggi più interessanti:

Credo che occorra almeno distinguere l’informazione «trasmessa» (broadcasting) e quella «condivisa» (sharing nei network sociali). I due contesti generano due visioni della credibilità che sono molto differenti. Nel caso delbrodcasting la credibilità è tutta centrata sull’autorevolezza e l’attendibilità di chi trasmette, cioè la testata. Nello sharing questo concetto è più complesso perché l’informazione è tale solo se condivisa all’interno di rapporti «credibili» e autentici. Si dovrebbe meglio parlare di «affidabilità» che è un concetto molto più relazionale e partecipativo.

Vi consiglio di leggere l’intero post. Per quanto mi riguarda, confrontarmi con la visione di Spadaro ha stimolato la scrittura di un lungo commento che mi è parso utile condividere anche qui, sia per tenerne traccia sia per rilanciare una discussione alla quale credo valga la pena partecipare.

 

Nell’era in cui le informazioni abbondano, il bene che scarseggia è l’attezione. L’impossibilità di seguire tutto e la diffusione dei social network site, con i loro mille strumenti di pubblicazione, condivisione e rilancio, fanno sì che i nodi della nostra rete sociale online diventino – nel bene e nel male – anche i principali filtri delle informazioni che riceviamo, le lenti attraverso cui guardiamo una porzione del mondo.

Alcuni dei nodi presenti nelle nostre reti sono più autorevoli di altri, forti di una credibilità che hanno dovuto guadagnare parola dopo parola pubblicata, interazione dopo interazione, con la forza delle loro idee e dei loro argomenti.

Se hanno lavorato bene, tra questi “influencers” sono presenti anche giornalisti, finalmente in vista non per il “diritto ereditario” derivante dalla semplice appartenenza a qualche testata blasonata, ma in quanto personalità che si sono imposte a colpi di contenuti e professionalità.

Credo tuttavia che il nodo della questione sia un altro: il grande “cultural shift”cui ci troviamo di fronte risiede nel fatto che, grazie alla rete, è finalmente nostra (di tutti noi) la responsabilità di trovare, selezionare, comprendere e riordinare le informazioni che possono interessarci. Lo è perchè ora abbiamo tutti i mezzi, tecnologici e culturali, per essere “editor” (nel senso anglosassone del termine) di noi stessi. Per uscire dal torpido ruolo di fruitori passivi di informazioni pre-cotte e digerite e prenderci la briga di scavare tra le notizie, verificare le fonti, confrontare le versioni, formarci un’opinione.

Magari anche con l’aiuto di fonti autorevoli o di professionisti dell’informazione; ma senza più rinunciare al ruolo attivo, consapevole, partecipe e responsabilizzante che la nuova rete finalmente ci consente di assumere.

Voi cosa ne pensate?

 

Photo: cc511

Zuckerberg e la privacy, ieri e oggi (ovvero: trova le differenze)

Dicembre 2009. Durante un’intervista con Michael Arrington (Techcrunch), Mark Zuckerberg – fondatore di Facebook – afferma che, se si fosse trovato a lanciare in quel preciso momento la sua piattaforma di social networking, tutte le informazioni relative agli utenti sarebbero state di default pubbliche invece che private. Poi spiega anche perché:

People have really gotten comfortable not only sharing more information and different kinds, but more openly and with more people. That social norm is just something that has evolved over time.

Oggi, dopo un doloroso scontro frontale con la Federal Trade Commission, il giovane CEO del più grande social network al mondo sembra essere sceso a più miti consigli.

Overall, I think we have a good history of providing transparency and control over who can see your information.

That said, I’m the first to admit that we’ve made a bunch of mistakes. In particular, I think that a small number of high profile mistakes, like Beacon four years ago and poor execution as we transitioned our privacy model two years ago, have often overshadowed much of the good work we’ve done. […] But we can also always do better. I’m committed to making Facebook the leader in transparency and control around privacy.

Quando si dice “cambiare rotta”.

Quando l’azienda incontra i social media (3 video, 11 casi studio e qualche riflessione)

Aziende B2B e social web. Un binomio che solo agli occhi meno attenti può ancora apparire improbabile e che invece, dopo lunghi anni di gestazione, nel 2011 si rivela possibile, efficace e anzi assai auspicabile. Oltre che spesso incentrato sul corporate blogging.

Di questo e di altro (compresi i “cinque stadi del dolore aziendale”) ho parlato lunedì scorso a Pordenone su invito di Unindustria (che ringrazio per l’ospitalità), durante l’ultimo di tre incontri formativi organizzati sotto il cappello Web3days e indirizzati alle aziende locali. Nella mia presentazione ho parlato della presenza e delle iniziative online di aziende “insospettabili” come Caterpillar, Shipserv, Black&Decker, Berto Salotti, Carbonelli o ancora Kinaxis e Indium. Ma ho anche aperto le danze citando tre casi storici (Kriptonite, Kensington e Dell) che come sospettavo sono stranoti agli esperti e del tutto ignoti alla maggior parte degli imprenditori italiani.

I video

La prima parte, della durata di circa 17 minuti, è dedicata ai “5 stadi del dolore aziendale” (vedere per credere) e a tre casi studio storici dove il primo, ovvero Kriptonite Locks (con rapida citazione di Kensington), serve a chiarire cosa è accaduto e accade quando un’azienda sceglie deliberatamente di ignorare la conversazione in corso in rete. Il secondo caso studio, invece, riguarda l’epopea di Dell, azienda passata dolorosamente attraverso tutti e cinque i sopracitati stadi ma che, alla fine (e dopo bel due anni), è uscita a testa alta dalla crisi. Il terzo, infine è l’arcinoto caso studio riguardante la Blendtech, i suoi incredibili frullatori e la “viralità” dei video in cui sminuzzano i prodotti più imprevedibili.

 

La seconda parte è dedicata in parte a casi studio B2B oriented in parte a iniziative B2C (Shipserv, Caterpillar, AZ Machine Tools, Ditre Italia, Torrefazione Carbonelli) dove si dà risalto a quanti e quali usi costruttivi si possano fare in aziende apparentemente molto poco social delle tecnologie nate nel cosiddetto web2.0. Di come ogni azienda debba e, a conti fatti, possa farle proprie e re-interpretarle per raggiungere al meglio i propri scopi.

 

 

Infine, la terza parte, di ben 22 minuti, vede terminare la carrellata di aziende cadute nella rete (si citano Kinaxis, Berto Salotti, Black&Decker, Indium), e poi accenna rapidamente al possibile futuro della comunicazione aziendale, definendo un trend che poi è la risultante di vari e autorevoli pareri da me raccolti negli ultimi tre anni di interviste (nello specifico, qui si citano Steve Rubel, Josh Bernoff e Derrick De Kerchkove). Il tema è che i siti corporate spariranno e la comunicazione aziendale sarà sempre diffusa, appannaggio di più dipendenti “empowered” dalle nuove tecnologie abilitanti.

 

La chiave di tutto, non è copiare la rete o anche solo prenderne a prestito le tecnologie. Il problema non è mai tecnologico. Il tema è fare uso dei nuovi strumenti per comprendere a fondo le potenzialità che essi esprimono, fare proprie le nuove dinamiche di interazione, condivisione e co-creazione che consentono, imparare a padroneggiarne i meccanismi e quindi ri-contestualizzare il complesso know-how acquisito all’interno dell’azienda. Così facendo, si rinnovano i processi esistenti, se ne creano di nuovi, si trovano e applicano soluzioni inattese.

In due parole, si innova. E poi, fatalmente, si vince sul mercato.

Altro tema che è emerso dalle ricerche fatte per mettere insieme questa presentazione è che il corporate blog, con buona pace di molti e sbrigativi “Gufi” della rete, non è morto. Se devi vendere acqua zuccherata (per citare Steve Jobs) è probabile che tu faccia bene a concentrarti su Facebook e Twitter. Ma se devi porti come thought leader nel tuo settore, se devi stabilire e condurre una conversazione con i tuoi stakeholder che sia proficua per tutti, se devi far emergere personalità, professionalità e competenza di chi lavora per te, in modo che tali qualità posizionino verso l’alto la tua azienda, allora ciò di cui hai bisogno è proprio un blog (e di tutte le aziende citate, solo due ne sono sprovviste).

Insomma, fare Businness 2 Businness significa anche (e sempre di più) saper fare del buon Blogging 2 Business.

Rosario Fiorello: “I social network mi hanno reso più forte”

Rosario Fiorello visto da diletta parlangeli

Ieri la prima puntata de “#ilpiùgrandepettacolodopoilweekend”. E se è vero, come twittava a fine serata qualcuno, che con il suo ritorno su Rai Uno Fiorello ha definitivamente sdoganato Twitter sui mainstrem media italiani, altrettanto vero è che lui stesso attribuisce al servizio di micro-blogging (e ai social network in generale) un ruolo importante nella sua vita d’artista.

“Mi hanno cambiato e mi hanno reso più forte”, ha infatti spiegato tra il serio e il faceto durante la conferenza stampa di presentazione del suo programma e poi confermato davanti alla nostra telecamera. Tutto puntualmente documentato.

Per un racconto puntuale della “Twitter revolution” di Fiorello, c’è infatti l’ottimo pezzo scritto da Diletta per DNews, di cui trovate l’incipit poco più in basso. Subito sotto invece il video che abbiamo tirato fuori dal brevissimo incontro con lo showman siciliano. C’è da ridere e da riflettere.

Enjoy

(foto: Diletta Parlangeli)

 

Dal Blog di Diletta:

Un uomo cambiato dai social network. O forse uno che ne ha capito le immense potenzialità di attrattiva sul pubblico, e le sta usando tutte. Comunque stiano le cose, Rosario Fiorello sarà il primo a gettare la Rete in prima serata su Rai1, dal 14 novembre. Promette di ospitare ogni puntata 100 dei suoi followers su Twitter (attualmente è “seguito” da 86.576 persone). Reclutati proprio attraverso il sito di micro blogging, potranno scrivere e condividere contenuti direttamente dallo Studio 5 di Cinecittà, dove andrà in onda per 4 puntate “#ilpiùgrandespettacolodopoilweekend”.

L’hashtag (leggi “#”) è un altro tributo al linguaggio del web: al fianco di una sigla o di una parola, serve a rintracciare tutti i contenuti pubblicati su uno stesso argomento e non è un caso che nel pomeriggio proprio sul suo profilo Fiorello discutesse del fatto che ne va trovato un altro, più breve e fruibile. D’altronde, ammette nel corso della presentazione in viale Mazzini: «Ora so’ fuori de testa con Twitter».

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The Apple “Gravestore”

I’ll keep it plain and simple: I think that keeping the Steve Jobs tribute photo on the main page of the Apple online store for eleven days (so far) it’s a little odd, a bit disturbing and somehow creepy.

It’s a Pr mistake to keep this going for so many days, especially while customers are rushing the online store to buy every iPhone 4s available on planet earth.

And above all: I don’t think he would have let them do it.

Not at all.

 

Il Sole24ore apre alla condivisione online dei contenuti

IlSole24ore.com diventa oggi un po’ più “social”. Proprio mentre faccio click sul tasto publish di questo post, sul sito del quotidiano fanno la loro comparsa nuovi strumenti per la condivisione dei contenuti (nome in codice “condividi 24”), organizzati come potete vedere in anteprima nell’immagine accanto.

Nello specifico si tratta di un menù contestuale (vedi immagine) che d’ora in poi apparirà  ogni qualvolta si seleziona una porzione di testo in un articolo e che consente di copiarlo, embeddarlo, inviarlo per mail e ancora rilanciarlo direttamente su Facebook o Twitter. Il servizio viene implementato con un duplice scopo: da un lato per facilitare la condivisione dei contenuti da parte degli utenti e, dall’altro, per “disciplinarla” e sottolinearne il valore. Nella policy del nuovo servizio (vedi immagine), raggiungibile cliccando sulla voce “Info e feedback”, si legge infatti:

Grazie per l’attenzione ai nostri contenuti: ci fa piacere che il nostro lavoro sia apprezzato e diffuso. Con questo servizio mettiamo a disposizione alcuni strumenti per facilitarne la condivisione.

Gli strumenti proposti consentono di condividere una parte rilevante dei contenuti più brevi ed ampie porzioni dei contenuti più lunghi, oltre la quantità che potrebbe essere ritenuta ammissibile dalle norme vigenti in materia di diritto di corta citazione. Per questa ragione, e per eliminare qualsiasi ambiguità, abbiamo ritenuto opportuno associarvi la licenza Creative Commons CC BY-NC-SA.

Per redarre questi contenuti sosteniamo costi importanti; i link nel testo che rimandano al nostro sito e qualche pubblicità che potremmo inserirvi ci aiutano a sostenerli.

Insomma: compiendo un passo importante nella sua non sempre illuminata marcia di avvicinamento alla rete, la versione online del giornale di Confindustria apre agli utenti mettendoli in condizioni di citare “legalmente” fino al 20 per cento di ciascun articolo (fino a 5 righe  nel caso di articoli brevi) e – cosa che mi sembra persino più degna di nota – lo fa finalmente adottando una policy chiara e comprensibile, senza nascondersi dietro il solito, impenetrabile gergo legalese. Non è ancora l’apertura che molti di noi auspicano un po’ da tutti i giornali italiani, ma di certo è qualcosa di più e di meglio che trincerarsi dietro ad un (ormai inutile) “riproduzione vietata” in calce ad ogni pezzo.

Nella stessa schermata che contiene la policy, è presente in basso a sinistra un link alla pagina dei feedback, dove chiunque può lasciare commenti e suggerimenti per migliorare il servizio. Per una volta questi commenti non finiranno seppelliti nella casella di posta elettronica di qualche editor, ma resteranno visibili a tutti stratificandosi nel tempo come fossero commenti in un forum o nel post di un blog. Non resta che vedere se gli utenti avranno voglia di dire la loro, di proporre nuovi modelli di  interazione o funzionalità e se, in presenza di consigli e suggerimenti davvero saggi, chi prende le decisioni vorrà e saprà davvero metterli in pratica.

A questo punto viene da chiedersi perché al Sole si siano risolti a fare questo passo, ma anche che tecnologia abbiano usato e quanto complicato sia stato (tecnicamente e politicamente) portare a casa il risultato. Ho girato queste domande a Stefano Quintarelli, Direttore dell’Area Digital del Gruppo 24 ORE: “In genere ci è riconosciuto un altro livello qualitativo – risponde “Quinta” – ma abbiamo, specie tra i più giovani, un’immagine paludata e di contenuti “difficili”. In questo modo cerchiamo di cambiare tale percezione e, contemporaneamente, di facilitare e stimolare il coinvolgimento di persone che tradizionalmente non sono nostri lettori”. Per quanto riguarda la tecnologia usata, è stato fatto uno studio iniziale “per capire su adottare Javascript o Flash, poi abbiamo optato per flash perché altrimenti alcune cose non sarebbero state realizzabili”.

Rispetto alla complessità affrontata nell’introdurre i nuovi strumenti nel giornale di Confindustria, Quintarelli minimizza: “E’ stato facile sia dal punto di vista tecnico che organizzativo. Per quanto riguarda invece l’accettazione della novità dentro al giornale, è bastato spiegare bene quali siano le dinamiche dei social media a chi non li conosceva e l’adesione al progetto è stata convinta”.