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Giornalisti e citizen journalist, c’è posto per (e bisogno di) tutti

Internet fa bene o male al giornalismo? Una domanda ricorrente, che da anni risuona nei convegni, durante i telegiornali, persino davanti ai banconi del bar. Ma se la domanda non è cambiata, a mutare nel tempo è stata sicuramente la risposta. All’inizio, l’opinione diffusa tra gli operatori del settore era che blog prima e social network poi fossero come una pistola carica nelle mani di giornalisti improvvisati, incapaci di verificare le fonti o distinguere la verità dalle fandonie, ma in compenso abilissimi nel diffondere e rilanciare balle incontrollabili e spesso anche pericolose.

Questo forse in parte era vero e in parte –obiettavano gli entusiasti del nuovo “giornalismo dal Basso” – un tentativo estremo ed inutile della stampa di difendere posizione, ruolo e privilegi. Quale che fosse la ragione, quel periodo di duro confronto sembra essere ormai alle spalle: la conferma arriva da alcune testimonianze raccolte durante la seconda giornata del Social Media World Forum a margine di un panel dedicato a “Social media and the news”. Il primo a dare un’idea precisa del nuovo corso è Mark Jones, Global Community Editor per Reuters, secondo il quale “i media sociali stanno migliorando il giornalismo, perché mettono a disposizione di chi fa informazioni nuove e valide fonti, diffondendo informazioni in un formato chiaro e semplice da usare”.

Gli fa eco Nick Petrie, Social Media & Campaigns Editor per The Times, che arricchisce il quadro sostenendo che “uno dei principali cambiamenti introdotti nella professione dall’avvento dei social media è che i giornalisti non hanno più il controllo delle storie che raccontano”, perché nel momento in cui le pubblicano esse appartengono ai lettori. Questi si guardano bene dal fruirle passivamente e le rilanciano, integrano, commentano oppure demoliscono mentre ci costruiscono intorno una conversazione alla quale il giornalista può e deve partecipare, che può provare a indirizzare ma che non può governare. E questo perché, dice sempre Petrie, nel moderno mondo dei media, “una volta pubblicata, la storia di ognuno diventa la storia di tutti”.

In questo contesto incredibilmente dinamico, dove l’ informazione è liquida e scorre ad altissima velocità, il mestiere del giornalista non passa certo di moda, ma assume una funzione nuova e richiede nuove skill: se infatti è vero che la “verifica delle nuove fonti è ancora una forma d’arte in via di definizione” – come ammette ironicamente Mark Jones – altrettanto vero è che il lavoro del giornalista si focalizza sempre di più sulla “content curation”, ovvero sulla selezione, la verifica dell’attendibilità, la cura (di forma, struttura), e la presentazione dei contenuti giornalistici dispersi nel world wide web. Oltre che ovviamente la produzione di approfondimenti ed analisi.

E se la cura dei contenuti diventa centrale alla professione, magari agevolata dal fatto che i social media consentono al giornalista di sentire il polso del lettore e capire cosa gli interessa davvero, allora la velocità di pubblicazione passa – finalmente – in secondo piano. Perché nessuna testata, per quanto grande, può competere con un esercito composto da milioni di potenziali citizen journalist, e perché il fattore differenziante, il focus del lavoro giornalistico diventa l’analisi delle cose e dei fatti. Che per definizione richiede tempo.

“Il giornalismo è cambiato, passando dal controllo dell’agenda delle notizie alla content curation e alla produzione di contenuti di qualità”, spiega infatti Peter Bale, Vice Presidente e General Manager per Cnn. Che poi sentenzia: “Un pezzo di 600 parole pubblicato due giorni dopo un evento ormai è morto in partenza. Oggi è tutto breaking news da 140 caratteri cui devono fare seguito approfondimenti di qualità”. Ed è qui che i professionisti del mestiere possono e devono fare la differenza.

Altro tema emerso a Londra riguarda la presenza del giornalista in rete: nel web sociale, dove la personalità emerge prepotentemente dietro la professionalità e dove il confine tra pubblico e privato diventa labile fino a sparire, “ogni giornalista è un brand” – afferma ancora Peter Bale – e deve svolgere un ruolo di ambasciatore presso gli utenti, contribuendo in prima persona all’immagine e alla credibilità della propria testata.

E quando infine chiediamo agli intervistati quali sono secondo loro le abilità fondamentali che ogni giornalista moderno dovrebbe avere, questi rispondono all’unanimità: deve abitare e conoscere i social media, sapere mettere in relazione fatti, notizie e fonti per effettuare puntuali verifiche incrociate e, soprattutto, deve essere (molto) scettico.

NB: Questo pezzo è tratto da Wired.it dove è stato pubblicato sotto licenza Creative Commons.

Succhi di frutta al veleno e PayPerPost de Noantri

Quando si tratta di Internet, questo paese ha il vizio di arrivare in ritardo su tutto, persino sugli scandali.

In queste ore si fa un gran parlare del “succo di frutta al veleno” propinato da un blogger anonimo (nel senso che fa un sacco di cose anche molto interessanti ma senza mai metterci la faccetta) a dieci blogger semi-anonimi (nel senso che alcuni di loro si conoscono bene perché ne stanno parlando in rete).

Riassume bene l’accaduto Enrico Sola, tra i diretti protagonisti della vicenda:

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Stati Uniti, AOL sempre meno portale e sempre più network di blog

Sembra ieri che America On Line, il più grande service provider americano, acquisiva il nano-publishing network Weblogsinc. Invece era il 2005, e l’affare da 25 milioni di dollari (fluiti nelle tasche del fortunato nano-publisher Jason Calacanis) sembrò ad alcuni la fine del blog network destinato – si diceva – ad essere snaturato dalla gestione “tradizionalista” di AOL-Time Warner.

Nel giro di tre anni molte cose sono accadute, compresa la defezione di Calacanis stesso, uscito dal progetto per dedicarsi alla creazione di uno “human-powered search engine”. Oggi una cosa appare certa: l’entrata di Weblogsinc in AOL non ha snaturato il network; al contrario, ha innescato un processo di rinnovamento magari lento, ma sicuramente profondo e rivoluzionario nel gigante americano.

Ha determinato un cambiamento di mentalità tale da indurre oggi il management a creare una nuova business unit, MediaGlow, espressamente dedicata alla gestione e allo sviluppo dei numerosi blog in cui la presenza on line di Aol è sempre più frammentata.

“Instead of having a handful of front doors, we’re creating dozens if not hundreds of front doors that are more relevant to advertisers,” spiega infatti al New York Times Bill Wilson, già publishing executive di Aol e presto presidente di MediaGlow, chiarendo anche come la strategia dell’azienda, che mira a lanciare 30 nuovi blog solo nel 2009, preveda una “total reinvention of the company”.

“Reinvention” che, in soldoni, farà del sito di Aol sempre meno un portale e sempre più un aggregatore/coordinatore di blog impegnati a presidiare le nicchie di interesse più disparate. Una costellazione di siti verticali e diversi tra loro attraverso i quali – è bene ricordarlo – un’agenzia pubblicitaria senza i paraocchi può e sa veicolare pubblicità assai più mirata e rilevante sia per gli inserzionisti che per i potenziali clienti.

Un’informazione diversa, i cui principi appaiono ormai scontati per chi – come noi – da anni crede, investendo tempo e denaro, nel nano-publishing, ma che per un media publisher tradizionale ed elefentiaco come Aol-Time Warner deve suonare oggi innovativa né più e né meno dell’invenzione della ruota o della scoperta del fuoco.

Chissà che non sia l’occasione buona per l’editoria tradizionale di uscire dall’età della pietra.

Cinque ragioni per cui un corporate blog fallisce

Brutalmente e senza tante cerimonie, mi sembra il caso di ribadire le 5 ragioni per le quali un corporate blog fallisce così come escono (inglese) dalla penna di Lee Odden (Online Marketing Blog).

No clear objectives. With all the buzz and promise of increased search engine visibility, improved customer communications and PR, many companies task their IT group to “set up a blog” without ever planning exactly what the key objectives are. […]The key is to identify the objectives for the corporate blog, get key metrics identified and create a content creation and promotion plan consistent with reaching those goals.

Unrealistic expectations and resource allocation. Blogging is work, no doubt about it. Not everyone is a natural blog writer and community builder. A successful business blog puts a personality on the company and both listens and responds to the community. Expecting a blog to be a silver bullet purely based on the SEO friendliness of blog software for example, is as shortsighted as expecting on-page SEO alone to solve a web site’s search engine ranking problems. […] If a company is going to start a blog, they should plan for success rather than treating it like a crapshoot. Commit or go home.

Not sourcing content for the long term. One of the most common reasons business blogs lack content or posting frequency is a combination of not participating in the blogging community conversation and not identifying content sources. Keyword researched blog categories can serve as a sort of editorial guide on what to write about as well as identifying a mix of post types to be written on a regular basis. […]Companies would also do well to identify multiple people to write for the company blog so no one person is tasked with too much.

No feedback mechanisms. Comments and trackbacks are a big part of why blogs are different than web sites. However, many business blogs don’t allow comments because they fear the time/expense of staffing required to handle them. They also fear what readers might say. Comments are a goal not a liability. Feedback from readers, good and bad creates a conversation that includes the company. The conversation is already happening elsewhere, why not have it in your own backyard?

Do it yourself syndrome. Companies can setup blogs themselves quite easily, but judging by the number of “dead” blogs out there, it’s a very different thing to setup a blog than to start a blog and be successful with it. As with any potentially complicated and lucrative venture, anticipating all the contingencies and dependencies is near impossible unless it’s been done before.

So cosa state pensando: vi domandate perché diciamo tutti più o meno le stesse cose. La risposta – suggerisco io – potrebbe essere che, semplicemente, sono vere.

Le Social Media Guidelines di Intel

Quando un colosso del calibro di Intel pubblica delle corporate guidelines espressamente pensate per “employee or contractor” che creano o contribuiscono a “blogs, wikis, social networks, virtual worlds, or any other kind of social media both on and off intel.com”, ci sono sostanzialemnte due cose da fare: battere le mani e andarsele a leggere.

Per invogliarvi, riporto qui sotto l’illuminante traduzione della prima parte:

Le piattaforme emergenti per la collaborazione on line stanno cambiando radicalmente il modo in cui lavoriamo offrendoci nuovi modi di confrontarci con i clienti, con i colleghi e con il resto del mondo.

E’ un nuovo modello di interazione e crediamo che il social computing possa davvero aiutare a costruire relazioni di lavoro più forti e di maggior successo. E’ inoltre un modo che voi (dipendenti Intel ndr) avete per prendere parte alla conversazione globale in corso su ciò che fa Intel e sulle cose che per noi sono importanti.

La scelta di partecipare o meno ai media sociali è vostra. Se però vi decidete a farlo, vi preghiamo di seguire queste indicazioni:

• Fornite il vostro punto di vista su cosa avviene in Intel e nel resto del mondo avendo cura di essere originali e rilevanti.
• Postate commenti che siano significativi e rispettosi – in altre parole, niente spam e niente considerazioni che siano off-topic o offensive
• Quando una risposta è necessaria, datela con rapidità
• Rispettate la proprietà intellettuale delle informazioni e la riservatezza
• Se non siete d’accordo con qualcuno, mantenete la calma
• Abbiate cura di conoscere e seguire l’Intel Code of Conduct l’Intel Privacy Policy

Che dire: sono così ben fatte che non sembrano vere. Di certo, ognuno di voi là fuori dovrebbe leggerle tante volte quante ne servono per impararne a memoria non le parole, ma il senso profondo del cambiamento che oggi, persino qui in Italia, è in atto.

Detto questo, vi consiglio di andare a darci un’occhiata focalizzando la vostra attenzione sulle (molte ed assai sagge) “Rules of engagement”.

Webank e il call center (quasi) 2.0

Durante la settimana ho avuto occasione di tornare ad incontrare parte del management di WeBank per un informale aperitivo milanese organizzato da Digital Pr.

Nel corso della serata ho potuto confrontarmi a lungo con l’AD Andrea Cardamone e con Luigi Provenza, Trading ondine manager sempre per WeBank.

Da quest’ultimo mi sono fatto raccontare come il call center dell’azienda, in pratica il vero front office di una banca che opera interamente on line, usi uno strumento collaborativo per accumulare, organizzare e condividere il Know How che man mano gli operatori acquisiscono nel contatto con il pubblico.

Riporto di seguito le informazioni che Provenza ha gentilmente condiviso con me rispondendo alle mie domande:

Il Call Center è interno e conta 31 operatori (sono veri operatori bancari). Lo strumento di condivisione interno è accessibile a tutte le persone della intranet. Il prodotto è un prodotto di PAT (infinitive crm solution) denominato HDA (helpDeskAdvanced) ed è operativo da circa 5 anni.

Tutte le informazioni in esso immagazzinate sono a portata di mano sempre e dovunque attraverso
un’interfaccia personalizzabile da ogni singolo utente. Questa soluzione gestisce, organizza e consente di archiviare le informazioni in modo rapido ed efficiente usando i file di tutti i formati (doc, html, pdf, txt etc.)

Ogni chiamata che arriva al call center di WeBank genera un ticket. Se il ticket è già stato risolto in passato, la risoluzione del problema avviene sulla base dell’esperienza precedente in tempi molto rapidi.

Se il ticket corrisponde a un problema nuovo, si ricerca la risoluzione del problema all’interno dell’azienda, si ricontatta il cliente e si rende disponibile la soluzione per tutti gli altri operatori.

Il sistema consente di rilevare statisticamente la tipologia di problemi e il numero di Clienti impattati consentendo al personale di agire direttamente su prodotti e servizi oggetti di frequenti segnalazioni.

Il servizio che ha subito più evoluzioni nel tempo è quella che noi chiamiamo AOL (acronimo di Adesione On Line), ovvero il processo di registrazione di un utente al nostro servizio.

Come strumento collaborativo all’interno dell’azienda utilizziamo le funzionalità di sharing offerte dalla suite di Microsoft: per esempio condividendo un documento di word, un excel o un power point possiamo lavorare a più mani sullo stesso file.

Un meccanismo che, pur ricorrendo a software proprietario, mi ricorda da vicino le dinamiche di strumenti simili ma derivati dal web2.0 (wiki soprattutto), come descritto da Ross Mayfield in una precedente intervista.

Video intervista con Stephen Elop, presidente Microsoft Business Division

Oggi il cloud computing con la piattaforma Azure. Domani la nuova versione della suite Office dotata di strumenti per l’editing online. In un futuro forse più lontano ma comunque già annunciato, il sistema operativo Midori.

Microsft sta cambiando, sta ridefinendo il proprio core business, si sta preparando ad affrontare un mercato sempre meno “OS centrico” e sempre più simile a quello profetizzato da John Gage quando affermò che “The network is the computer”.

La posta in gioco è altissima. Il futuro ancora tutto da decidere. E’ insomma il momento giusto per chiedere a Steven Elop, presidente della Microsoft Business Division incontrato durante una piacevole cena informale, se ad esempio l’azienda di Redmond stia abbandonando il desktop dopo trent’anni di dominio nel mercato dei sistemi operativi o, ancora, con quali preoccupazioni le migliaia di partner Microsoft nel mondo stiano vivendo la transizione verso il nuovo mercato del “software plus service”.

La risposta a queste e ad altre domande (in inglese) nel video dopo il “continua”:

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Mutazioni Digitali: incontro a Roma per discutere di “Coda Lunga”

Fra poco più di un paio d’ore sarò ospite di Antonio Pavolini e Marco Traferri a “Mutazioni digitali”, un ciclo di incontri “sull’impatto dei nuovi media sulla creazione e sulla fruizione della cultura, dell’informazione, dell’intrattenimento.

L’incontro di oggi (è disponibile lo streaming video in diretta e on demand) , ospitato nell’area convegni della FNAC presso il centro commerciale Porta di Roma, si intitola “Arriva la Coda Lunga: mai più ‘grandi successi’?”, e torna ad esplorare l’affascinante teoria abilmente argomentata nel 2004 dal direttore di Wired Chris Anderson.

Il caso vuole che, esattamente un anno fa, in queste ore volavo a Milano proprio per incontrare ed intervistare quest’ultimo, con il quale ebbi la possibilità di fare una lunga ed interessante chiacchierata. L’occasione mi sembra quindi adatta per riproporre qui il pezzo che da quell’intervista è scaturito. Buona lettura.


Conversando con Chris Anderson

(english version here)

Quando il direttore di Wired Magazine viene in visita a Milano, ospite della Ruling Companies Association, l’unica è prendere il primo treno e andare ad intervistarlo. Fortuna vuole che Chris Anderson sia non solo l’autore dell’ormai famoso libro “The Long Tail” (2006), ma anche un giornalista e un blogger che sa ben apprezzare una conversazione in puro stile web2.0.
Con mezz’ora abbondante a disposizione, abbiamo chiacchierato amabilmente di “Coda Lunga” e della libertà di scelta che essa finalmente concede al consumatore, ma anche della cosiddetta “social networking revolution” e di come questa stia influenzando il modello economico descritto da Anderson nella sua affascinante teoria.
Teoria che, dopo due anni di studio e approfondimento, l’editor-in-chief di Wired ha ritenuto opportuno estendere oltre i confini del solo media and entertainment market, ipotizzandone l’applicazione praticamente in qualsiasi contesto commerciale.
Non è mancato il tempo per parlare anche di come il suo blog abbia giovato alla qualità e alla popolarità del libro, della Rete in generale e persino di come il genitore Anderson gestisca, insieme con la moglie che odia la tecnologia, l’approccio alla Rete dei giovani figli.
In chiusura poi, una rivelazione inattesa: l’Italia è la nazione dei mercati di nicchia ed è da secoli avanti a tutti nella Long Tail Economy. La tecnologia moderna non fa altro che consentire agli altri Paesi di recuperare il ritardo finora accumulato. Una teoria forse un po’ troppo ottimistica, ma affascinante.

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Nanopublishing, Denton sopprime Valleywag

Con la notizia della chiusura di Valleywag, blog al vetriolo (parte di Gawker Media) specializzato nel gossip della Silicon Valley, la domanda sorge spontanea: l’età dell’oro del nanopublishing statunitense è finita?

Difficile rispondere. Certo, i tempi di gozzoviglio in cui un Jason Calacanis vendeva il suo blognetwork ad Aol per 25 milioni di dollari sembrano ora distanti ere geologiche.

Nick Denton, che di Gawker Media è il capo assoluto, non è nuovo al lancio di inquietanti segnali d’allarme rispetto allo stato e al futuro del nanopublishing business: lo scorso luglio, ad esempio, l’imprenditore aveva tagliato i compensi dei suoi blogger mentre in aprile aveva venduto tre dei suoi blog minori, ovvero Idolator, Gridskipper, e Wonkette.

Il perché dietro la chiusura di Valleywag è presto spiegato: secondo il chief editor Paul Boutin il traffico del blog “isn’t enough to pay for two writers, even with Ketel One ads on every page”, mentre secondo quanto afferma lo stesso Denton, il mercato della della pubblicità online si ridurrà presto di un devastante 40 per cento (qualcuno avverta Layla Pavone). Abbastanza per indurre l’imprenditore americano a tirare (forte) la cinghia prima che la carestia metta in ginocchio la sua azienda.

Ora non resta che scoprire se anche il nanopublishing nostrano si stia avviando verso la tempesta prevista dal capo di Gawker. Se così sarà, qui in Italia conosceremo la recessione dopo aver saltato a pié pari l’età dell’oro.

Danno e beffa.

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Web2.0 expo 2008, la parola a Martin Varsavsky

Qui alla web2.0 expo di Berlino il secondo giorno è trascorso tranquillo come il primo. Tranquillo perché, a conti fatti, non si può dire ci sia molto pubblico. Colpa della crisi, probabilmente, che oltre ad essere un tema assai ricorrente nei keynote visti in questi due giorni, deve infine avere inciso pesantemente sul numero di partecipanti.

La crisi, dicevo, della quale oggi è tornato a parlare Martin Varsavsky, imprenditore argentino fondatore e CEO di FON, che in una breve chiacchierata con Tim O’ Reilly si è simpaticamente preso gioco di coloro che oggi, nella Silicon Valley, gridano alla catastrofe come se essa fosse un fulmine a ciel sereno. “Chi sa guardare lontano ha visto la tempesta arrivare almeno un anno prima che, ad esempio, Sequoia Capital iniziasse a dare l’allarme”.

L’incapacità di prevedere l’andamento del mercato almeno nel medio termine, dunque, non è un difetto proprio solo del management italiano. Così come non lo è la pessima abitudine di investire precipitosamente e con leggerezza mucchi di denaro nel business del momento, salvo poi tirare precipitosamente i remi in barca quando le cose vanno male e l’investimento si rivela incauto.

Commenta infatti Varsavsky: “In certi periodi il mercato si rende disponibile ad investire ‘ridicole’ (perché eccessive ndr) quantità di denaro e periodi in cui invece ridicole sono le ragioni per le quali si rifiutano di farlo”.

Insomma, l’ottimismo dissennato di qualche anno fa viene ora travolto da una crisi che comunque è fisiologica e investe tutti i settori, non solo la web industry. Questo fa sì che gli investitori reagiscano eccedendo nel senso opposto e chiudendo i cordoni della borsa. “Se dovessimo lanciare oggi FON – aggiunge infatti Varsavsky –, oggi non troveremmo mai i soldi per farlo. E i risultati di FON ci dicono chiaramente che sarebbe un’occasione persa”.

Il talk si è concluso con una nota interessante sull’uso che gli utenti fanno dei router Fon. Esistono infatti sostanzialmente due modalità principali per fruire FON, dove una consente di condividere semplicemente la connessione con gli altri per “fare del mondo un posto migliore” e l’altra invece permette di guadagnare denaro condividendo con altri l’accesso in rete.

Secondo quando rivelato da Varsavsky, il popolo più “altruista” (più disposto a condividere gratuitamente la connessione) è quello dei giapponesi. Poi ci sono i tedeschi che, ad esempio, condividono per risparmiare sui costi di accesso e, (ovviamente) gli americani, che invece sono più portati ad usare FON per fare business e guadagnare.