Puntuali come le feste comandate tornano in queste ore gli annunci sulla morte dei blog con relative discussioni e confronti tra favorevoli e contrari. Ne ha parlato Enrico, caustico e ficcante come sempre. Gli hanno fatto eco Andrea Toso, che ha rincarato di parecchio la dose, e Massimo, che invece appare meno netto nel suo giudizio e più preoccupato dal significato e delle conseguenze di una eventuale morte dei blog.
Finora ho letto solo una parte dei commenti, ma mi sembra che, almeno questa volta, il sentiment delle persone che abitualmente leggo sia un pizzico più possibilista. Niente levata di scudi insomma, come ne ho viste in passato, per sostenere la salute ferrea e il futuro roseo dei blog.
E questo potrebbe già essere un indizio del fatto che Enrico possa avere ragione. Se così fosse, non sarebbe la prima volta.
Per quel che mi riguarda, non mi interessa sostenere una tesi o l’altra. Mi interessa capire, approfondire, trarre conclusioni e quindi ridefinire (o forse dovrei dire aggiornare?) le mie posizioni. Per curiosità e per necessità professionale.
Intanto un elemento: quando ho sentito il bisogno di partecipare alla conversazione, non mi è passato neanche per la testa di scrivere su Facebook o su qualsiasi social network site. Questo contenuto ci arriverà comunque, e potrà avere o meno fortuna (nel senso di diffusione), ma ho sentito il bisogno di realizzarlo in un contesto aperto e tuttavia controllato da me (ovvero il mio blog, che pure aggiorno poco). Ed è forse degno di nota anche il fatto che lo stesso Andrea Toso abbia sentito il bisogno di scrivere un lungo (e bel) post sul suo blog, per dire appunto che i blog sono morti. Tutto ciò, vorrà pur dire qualcosa.
Altro tema è che, leggendo qua e là, avevo la sensazione che qualcosa mancasse all’appello. Poi ho capito: mancano i numeri. Numeri affidabili, statistiche, cifre a sostegno dell’una o dell’altra tesi.
Quindi una domanda: con tutto il rispetto per i pareri espressi e per chi li ha formulati, non un po’ troppo autoreferenziale parlare di morte del blog (o di pre-pensionamento, per citare Contz), basandosi sul numero di feed che si legge ancora oggi, di post che si pubblicano e di lettori che li consultano, di commenti che si ricevono? Basandosi, insomma, solo sulla propria esperienza diretta che, come tale, è necessariamente limitata?
In attesa di una risposta, metto sul piatto alcune riflessioni schematiche e “volanti” basate anch’esse sulla mia esperienza diretta, e quindi condizionate da tutti i limiti del caso:
1) Il blog è uno strumento eccezionale per la pubblicazione, la stratificazione, la diffusione e la conservazione di contenuti complessi, intorno ai quali è anche possibile (sebbene magari oggi possa apparire meno seducente) instaurare una proficua discussione. E’ il luogo perfetto per conservare la conoscenza, così come i social network site si prestano meravigliosamente a rilanciarla e diffonderla. Allo stato attuale, più che di riconoscere passivamente come inevitabile un avvicendamento tra le due realtà, mi sembra ci sia più che mai bisogno di impegnarsi un cincinino per una maggiore integrazione, di favorire e anzi difendere questa complementarietà per il bene di tutti.
2) Forse il blog ha perso il suo appeal da strumento irrinunciabile per chiunque approdi in rete, e probabilmente è vero che il “99% per cento del cazzeggio” si è spostato su Facebook, Twitter” e compagnia cantante. Se così è, (e tutto sommato credo che lo sia), dal mio punto di vista è solo un bene. La validità dello strumento in sé resta indiscussa, mentre finalmente appare chiaro a molti che gestirne uno seriamente non è un passeggiata di salute, richiede impegno e dedizione, e sopra ogni cosa, richiede uno scopo. Quale che sia, da perseguire con idee chiare e decisione, indipendentemente dal fatto che chi apre il blog sia un singolo cittadino, un libero professionista, un’istituzione o un’azienda. Se insomma l’assottigliamento della blogosfera in favore della “statusfera” è frutto di una darwiniana selezione della specie, ben venga davvero.
3) Forse la morte di cui stiamo parlando – e questa sì, reale e inevitabile – è quella della creatività di un’intera “generazione” di blogger che in questi dieci anni ha imperversato nella rete italiana, cui va riconosciuto il merito di aver diffuso la cultura digitale e la colpa di essersi guardata troppo l’ombelico. Ma che inevitabilmente oggi ha esaurito la vena o le ragioni per usare uno strumento che, come tale, ha ancora molto da dire nelle mani di nuovi autori, pronti a farne uso con scopi e ragioni uguali o diverse da chi li ha preceduti.
Forse quello che oggi sta davvero morendo è il “blogger” che era in molti di noi incalzato dal cambiamento, dalla crescita e dell’evoluzione personale che lo stesso “fare blogging” ha determinato almeno in parte.
Insomma, è morto il blog, viva il blog!