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“I dati personali sono il nuovo petrolio”

big_bangLa settimana scorsa ho partecipato alla Next Conference 2011 di Berlino, quinta edizione di un evento sempre più interessante e ricco di spunti, quest’anno dedicato al Data Love: come spiegano gli stessi organizzatori,

Data is the resource for the digital value creation and fuel for the economy. Today, data is what electricity has been for the industrial age. Business developers, marketing experts and agency managers are faced with the challenge to create new applications out of the ever-growing data stream with added value for the consumer. In our data-driven economy, the consumer is in the focus point of consideration. Because his behaviour determines who wins, what lasts and what will be sold. Data is the crucial driver to develop relevant products and services for the consumer.

Molti i filoni di approfondimento che hanno animato un evento organizzato con infallibile precisione teutonica. Per conto mio, prima ho intervistato per L’Espresso Peter Vesterbacka di Rovio, azienda creatrice di “Angrybirds”; poi ho scelto di seguire e approfondire il tema relativo al mare magnum di dati personali presenti online e di come da essi dipenda un’intera economia, oltre che lo sviluppo di servizi innovativi che possono letteralmente cambiare il nostro modo di vivere. Ne ho parlato con Andrew Keen (cui va attribuita la citazione nel titolo di questo post), Euro Beinat, Fabio Sergio e Johan Staël von Holstein.

Il risultato è un pezzo pubblicato oggi su Nova24 a pagina 5, intitolato “Il controllo è sotto controllo?” e parte dello speciale “Il Big Bang dei dati”, peraltro già disponile online.

Eccone l’incipit

«L’enorme massa di dati personali che ogni giorno gli utenti riversano in rete è il nuovo petrolio». A parlare è Andrew Keen, imprenditore e scrittore angloamericano noto in rete per le sue posizioni critiche nei confronti della Web2.0, intervenuto dal palco della Next Conference 2011 di Berlino. «Ogni azienda – ha affermato –, da Linkedin a Facebook, da Foursquare a Twitter, dipende da noi e dai dati che decidiamo di condividere».
Secondo Keen, è necessario che gli utenti della rete comprendano il valore dei loro dati e ne recuperino il controllo.

Continua a leggere “Il controllo è sotto controllo?” sul il IlSole24ore.com

Change they all believed in: le presidenziali USA ‘08 raccontate dall’ex blogger di Obama Sam Graham-Felsen/2

Come promesso, ecco di seguito la seconda parte dell’intervista integrale con Sam Graham-Felsen, ex Chief Blogger per Barack Obama durante l’ormai leggendaria campagna elettorale per le presidenziali statunitensi del 2008. In queste righe Sam racconta come sia radicalmente cambiato il modo di fare attivismo politico, condivide la sua visione sul futuro delle campagne elettorali “empowered” dalle nuove tecnologie di comunicazione e si lascia involontariamente sfuggire un commento impietoso sul digital divide nel nostro Paese. (Una versione ridotta dell’intervista è stata pubblicata su Nova24 – IlSole24Ore di Giovedì 14 aprile, pagina 21)

– La prima parte è disponibile qui

Il futuro della comunicazione politica

Interessante anche la visione di Graham-Felsen rispetto a quali tecnologie verranno adottate in futuro nelle campagne elettorali: «La prima volta che ho fatto attivismo politico, ho dovuto guidare per due ore e andare in un altro Stato, – racconta –  dove mi hanno dato un foglio, una penna e un telefono per chiamare potenziali elettori. Nel 2008 potevo lavorare comodamente nella mia stanza da letto, dov’ero vincolato da una connessione di rete, mentre nel 2012 credo che il più vasto cambiamento verrà dall’affermazione del mobile, e consentirà alle persone di fare attivismo ovunque esse si trovino». Un domani ormai prossimo potremo ad esempio disporre di applicazioni per smartphone che, sfruttando servizi di geolocalizzazione come Foursquare, «sapranno avvisarci che a cento metri dal punto in cui ci troviamo abita un elettore indeciso e interessato a saperne di più sul nostro candidato, dandoci quindi la possibilità di scegliere se andare a bussare alla sua porta e raccogliere dati preziosi». Dati che, manco a dirlo, inseriremo in un database in tempo reale tramite una connessione mobile.

Insomma, quello che ci aspetta è un futuro nel quale Internet e le tecnologie di comunicazione che essa porta in dote saranno non solo disponibili ovunque, ma diverranno anche sempre più centrali al confronto politico.  Il tutto però senza che queste – sottolinea Graham-Felsen – possano mai sostituirsi del tutto al confronto faccia a faccia tra le persone, al calore di una stretta di mano. «Domani come ieri – spiega -non saranno le tecnologie, ma le persone che le usano per cambiare lo status quo a fare come ancora una volta la differenza». E a chi obietta preoccupato che in rete oggi trovano spazio e visibilità soprattutto gli estremisti, siano essi di destra o di sinistra, l’ex chief blogger di Obama risponde sbilanciandosi in una previsione ottimistica: «Nel lungo termine – afferma – le persone impareranno ad usare meglio la rete, a sfruttarne gli strumenti per informarsi, per capire cosa accade loro intorno e per formarsi un’opinione più equilibrata che consenta loro di partecipare alla conversazione politica in modo sempre più civile  e costruttivo». Impossibile non augurarsi che abbia ragione.

In chiusura, c’è anche tempo per arrossire con un breve aneddoto: parlando con alcune persone venute a conoscerlo al Centro Studi Americani in occasione della sua recente visita a Roma, a un certo punto Sam rimane interdetto quando scopre che in Italia il 50% della popolazione non è online. Poi si riprende e, citando quello che è  «solito dire nei paesi in via sviluppo come il Perù», spiega come chi già ha accesso alla rete debba «battersi non solo perché quell’accesso sia esteso a tutti e diventi un diritto, ma anche affinché sia percepito dalle persone come tale». Un paragone di certo involontario, quasi una gaffe priva di polemica, che tuttavia dà drammaticamente la misura di quanto arretrato debba sembrare il nostro Paese a chi viene da fuori.

Anche se prima è passato dal Perù.

Change they all believed in: le presidenziali USA ’08 raccontate dall’ex blogger di Obama Sam Graham-Felsen/1

Di seguito la prima parte dell’intervista integrale con Sam Graham-Felsen, ex Chief Blogger per Barack Obama durante l’ormai leggendaria campagna elettorale per le presidenziali statunitensi del 2008. Qui Sam rievoca gli aspetti fondamentali di quel successo e gli effetti che esso ha avuto sul contesto politico americano, mentre nella seconda parte – di prossima pubblicazione – condivide la sua visione sul futuro dell’attivismo politico “empowered” dalle nuove tecnologie di comunicazione. Una versione ridotta dell’intervista è stata pubblicata su Nova24 – IlSole24Ore di Giovedì 14 aprile (pagina 21)

sam_graham-felsen“Tutto comincia da noi”. A venti mesi dalle elezioni presidenziali del 2012, il presidente degli Stati Uniti Barack Obamaancia online la campagna per ottenere il suo secondo mandato inaugurando un “claim” di sicuro effetto, rinnovando il sito web che porta il suo nome, pubblicando un video su Youtube e, soprattutto, aggiornando il proprio status su Facebook e Twitter.

L’intento è evidentemente quello di ripetere il successo del 2008. Dunque quale momento migliore per rievocare quell’impresa e tentare di comprenderne i segreti? Un compito non facile, per il quale abbiamo chiesto aiuto a Sam Graham-Felsen, giovane blogger e giornalista americano già “Chief Blogger” di Obama durante la sua fortunata campagna presidenziale.

Iniziamo con il chiedergli come hanno reagito gli altri politici americani, dopo le elezioni 2008, di fronte alla prova provata che Internet funziona per raccogliere soldi e voti: «La reazione – risponde – è stata sbarcare in massa in rete», luogo che fino a quel momento essi avevano sistematicamente ignorato e dove ora si lanciavano «a caccia di fondi e di consenso». Peccato però che «ancora oggi la maggior parte di loro fallisca nell’usare gli strumenti di comunicazione online perché applica strategie vecchie in un contesto nuovo, perché non conversa ma adotta una comunicazione “dall’alto” e unidirezionale, o ancora perché pubblica comunicati stampa su Facebook o spot tv su Youtube invece di creare contenuti pensati per il web, di cercare insomma un rapporto genuino con i propri elettori».

Una strategia, questa, né più né meno che opposta a quella tenuta dal New Media Team messo in piedi da Obama, uno staff di ben 100 persone che, racconta Sam Graham-Felsen, «non usavano gli strumenti di comunicazione presenti in rete per gridare ai quattro venti “guardate quanto è grande Obama”, ma al contrario per dire alla gente “guardate quanto siete grandi voi e che cosa potete fare”, quindi per fornire loro gli strumenti tecnologici necessari per conversare, organizzarsi e partecipare concretamente alla vita politica del Paese». Il tutto nell’ottica di instaurare una conversazione bidirezionale, genuina e trasparente secondo un approccio che, persino vista da qui, appare assai distante da quella dei Repubblicani: «Basta guardare quello che ha fatto e fa Sarah Palin – conferma il giovane blogger – che usa la rete solo per accrescere la propria forza e che non accetta il confronto, per esempio cancellando sistematicamente dalla sua pagina di Facebook commenti negativi e domande scomode».

Sam ha le idee chiare ed è uno “storyteller” nato. Facile quindi comprendere perché sia stato scelto per raccontare il complesso scenario delle presidenziali del 2008. Meno facile è invece accettare – specie per chi come noi è abituato alla “normalizzazione” costante e implacabile dell’informazione – che egli abbia avuto carta bianca per scrivere ciò che voleva, che accanto a lui non ci fossero «i soliti dieci responsabili delle pr in fila per approvare ogni suo post» o, ancora, che sia stato scelto perché giornalista senza esperienza di pubbliche relazioni, visto che simili competenze avrebbero potuto «intaccare la genuinità di ciò che doveva scrivere».

Una scelta che dà la misura del ruolo e dell’importanza che i contenuti hanno avuto nella campagna presidenziale di Obama: «Si è parlato a lungo del fatto che, grazie alla rete, abbiamo raccolto 500 dei 700 milioni di dollari necessari a sostenere la campagna elettorale, o che gestivamo una mailing list da milioni di nomi. Nessuno sembra però aver realmente capito – sottolinea Sam – che sono solo numeri, che non avremmo mai avuto tanta partecipazione se non fossimo stati in grado di raccontare storie capaci di ispirare le persone, di far sì che si impegnassero e restassero impegnate». E che ci siano riusciti lo conferma un dato su tutti: dei 3,2 milioni di donatori online intervenuti a sostegno della campagna presidenziale di Obama, la media ha dato più di due volte volte. Chiaramente un modo per sentirsi parte del processo e ribadire in più occasioni il proprio sostegno.

Di recente, alcuni osservatori hanno espresso perplessità rispetto al ruolo della rete nel successo elettorale di Obama, ricordando la possente campagna di quello che potremmo definire marketing tradizionale (spot tv, pubblicità sui principali giornali on- e offline ecc.) lanciata a sostegno del futuro presidente e pagata fior di dollari. Rispetto a questo tema Graham-Felsen taglia corto: «E’ vero che molti dei soldi della campagna sono andati in pubblicità, tuttavia è sciocco dire – come alcuni fanno, – che Obama non abbia beneficiato della rete quanto dei media tradizionali, e questo semplicemente perché non saremmo mai arrivati in televisione senza l’enorme sostegno economico avuto attraverso la rete».

Altri detrattori hanno invece sostenuto che il successo costruito da Obama e dal suo staff con le attività online sia stato di corto respiro, leggendo la sonora sconfitta incassata dai democratici alle elezioni di medio termine anche come la conferma di quanto effimero sia il consenso conquistato in Internet. Graham-Felsen non è d’accordo: «In questa nuova fase campagna elettorale il presidente non ha replicato il successo del 2008 perché semplicemente ha cambiato approccio alla comunicazione online. Dopo l’elezione si è giustamente circondato di consiglieri dalle strategie più tradizionali, che comprensibilmente vedono la mobilitazione della base attraverso Internet con una certa apprensione». Come a dire: Obama ha sbagliato, ma forse non poteva farne a meno.

Mobilitare la base richiede infatti che si ceda parte del controllo, e questo può essere pericoloso per chi detiene il potere. Dal canto loro, «gli utenti della rete si mostrano più inclini ad essere mobilitati in battaglie contro lo status quo che non a suo favore», chiaro quindi che Obama fatichi molto di più ora a raccogliere consensi attraverso la rete che non prima, «quando poteva far leva su otto anni di governo Bush».

Continua …

Self-Publishing, quando il bestseller è fai-da-te

L’Ebook Lab Italia, evento sull’editoria digitale rivolto ai professionisti del settore e organizzato da Antonio Tombolini con la sua SBF, è stato un successo. Non mi riferisco solo al fatto che fosseben organizzato, serrato e ricco nella presentazione di contenuti. Lo dico anche perché credo sinceramente di aver imparato qualcosa, di certo abbastanza da poterne scrivere un pezzo per Nova24.

Così accade che nel numero di oggi, a pag 23, mi trovi a raccontare di editoria digitale in compagnia di Antonio Dini e Luca Conti (che parlano rispettivamente di prezzi e di mercato) e, nel caso specifico, che racconti il fenomeno emergente del self-publishing riportando tre testimonianze: quelle di Piotr Kowalczyk, brillante auto-editore polacco, dello stesso Tombolini e di Marco Carrara, blogger esperto di editoria digitale.

Il pezzo è disponibile anche on line. Di seguito un assaggio:

Piotr Kowalczyk scrive racconti brevi. Già due anni fa ne aveva prodotti abbastanza da riempire quattro libri, eppure non riusciva a farsi pubblicare perché – racconta divertito – secondo gli editori oggi «nessuno vuole leggere racconti brevi. Il pubblico ama i romanzi». Un responso impietoso, di fronte al quale Piotr non si è perso d’animo: è diventato self-publisher – o per dirla all’italiana, editore di se stesso – e ha iniziato a sperimentare.

Continua a leggere su IlSole24Ore.

“Dipendenti 2.0”, se ne parla su Nova24 e alla Social Media Week di Roma

Update: L’articolo “Nuovi eroi d’azienda” è disponibile anche online sul sito de Il Sole 24 Ore.

employee2.0Due righe per segnalare la pubblicazione domani su Nova24 (pagina 19) di un mio articolo dedicato ai “Nuovi eroi in azienda”, o meglio agli “HERO”. Un efficace acronimo creato da Josh Bernoff e Ted Schadler per definire gli “Highly Empowered and Resourceful Operative”, vale dire quei dipendenti creativi che si rivelano capaci di usare con disinvoltura le tecnologie online per servire al meglio i “nuovi clienti 2.0”.

Il pezzo è costruito intorno a più interviste: quelle con gli stessi Bernoff e Schadler, analisti Forrester e co-autori del libro “Empowered“,  sommate a una interessante chiacchierata con Mark Engelsman e Michelle Brusyo di Digital Brand Expressions, i quali a loro volta spiegano come governare l’implementazione di iniziative di comunicazione 2.0 in azienda evitando di finire nel caos.

Visto che in questo momento il tema mi è particolarmente caro, ho poi pensato bene di mettere a frutto gli spunti forniti da Bernoff&co per  organizzare un panel (insieme con Stefano Epifani e in qualità di partner Info) da tenersi mercoledì 9 febbraio nell’ambito della Social Media Week di Roma e intitolato (grazie al suggerimento di Antonio Pavolini“Employee 2.0 – Dalle relazioni istituzionali alle relazioni distribuite” .

Se la cosa è di vostro interesse, fate un salto a trovarci e portatevi dietro qualche buona domanda da girare ai nostri relatori. Per avere tutte le informazioni e per registrarsi (gratuitamente) è sufficiente collegarsi alla pagina dedicata all’evento, oppure partire direttamente dal form qui sotto.

Derrick de Kerckhove e l’amicizia ai tempi di Facebook (aggiornato)

UPDATE: l’articolo è disponibile anche online sul sito de IlSole24Ore

Oggi sul Nova24 – IlSole24Ore, pag.9, c’è una mia intervista con il sociologo canadese, direttore Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia. Riporto qui l’attacco del pezzo per invogliarvi alla lettura:

«Oggi parole importanti come “amicizia” e “amico” non indicano lo status effettivo di una relazione, ma le sue potenzialità ancora tutte da esplorare», un futuro possibile che non si è ancora verificato. Derrick de Kerckhove, direttore del McLuhan Program in Culture and Technology, docente e sociologo di fama internazionale, sorride divertito mentre spiega come l’avvento dei social network, e in particolare di Facebook, stia modificando radicalmente il nostro modo di intendere i rapporti sociali, così come il significato che diamo alle parole usate per descriverli.

Come sempre, sono graditi i feedback.

Crowdsourcing, con Internet il mercato del lavoro diventa globale

Risorse umane. Che sia dietro l’angolo oppure dall’altra parte del globo, da qualche parte vive e lavora il professionista che ancora non conoscete ma del quale avete disperato bisogno. In passato trovarlo e contattarlo era operazione costosa in termini di tempo e denaro e, a dire il vero, non sempre coronata dal successo.

Oggi è ancora una volta la rete, tessuto connettivo capace di azzerare la distanza tra persone e aziende, a venire in vostro aiuto con il “crowdsourcing”. Il neologismo, coniato nel 2006 dal giornalista di Wired Jeff Howe, nasce dalla fusione tra “outsourcing”, ovvero la pratica di delegare compiti e lavori al di fuori della propria azienda, e “crowd”, ovvero l’immensa ed eterogenea folla di talenti d’ogni lingua, nazionalità e cultura che popola la rete.

Negli ultimi anni si sono infatti moltiplicati gli “online crowdsourcing markets”, ovvero quei siti che raccolgono comunità di professionisti in vari settori e ne facilitano l’incontro con i potenziali committenti. I primi esperimenti, molti dei quali tutt’ora in corso, hanno nomi come iStockphoto, che ha rivoluzionato la compravendita degli “scatti” professionali, Ninesigma, che si propone come immenso serbatoio di idee e creatività per il “problem solving” e YourEncore, dove scienziati in pensione rimettono al servizio delle aziende la loro competenza e, soprattutto, la loro provata e preziosa esperienza.

Ecco come generalmente funzionano queste piattaforme: il committente si iscrive al servizio online, propone un task da eseguire, un limite temporale per realizzarlo ed eventualmente un budget predefinito. I “providers” di manodopera intellettuale forniscono una soluzione, eventualmente anche rilanciando al ribasso il budget iniziale, e l’idea migliore vince facendo risparmiare tempo e denaro. Se poi qualcuno tenta di barare, sia esso committente o provider, non ha scampo. Una volta completato il progetto, ciascuno degli “attori” viene votato dalla controparte proprio come avviene sul sito d’aste online eBay. Collezionare giudizi positivi e costruirsi una buona reputazione è vitale se si vuole continuare a lavorare.

Un buon esempio è rappresentato dal britannico BuilderSite, cui va riconosciuto il merito di applicare i principi fin qui descritti all’industria edile, aiutando “le persone a trovare ed assumere costruttori per i loro progetti”. L’utente che desidera far ristrutturare il bagno o costruire la casa dei propri sogni, si iscrive al sito dove cerca e (generalmente) trova un interlocutore cui affidare progetto e budget. Quest’ultimo può essere un’azienda o un singolo artigiano, ma anche un intermediario che, sempre tramite la piattaforma BuildersSite, cerca i singoli professionisti, contratta con loro prestazioni e prezzo, organizza una squadra. Ogni progetto riceve più offerte e, semplicemente, la più conveniente vince. La commissione per ogni progetto assegnato è carico dell’azienda appaltatrice ed è pari al 5 per cento.

Un altro esempio è Take a Coder, un online marketplace dove le aziende incontrano programmatori software (ma anche traduttori, interpreti, grafici) provenienti da tutto il mondo. Il servizio è operativo in 13 lingue e copre 40 paesi, Italia compresa. Il sito con maggior traffico è quello internazionale e vanta 8mila utenti registrati, 20mila utenti unici al mese e una media di 150 transazioni concluse nello stesso periodo. Il vantaggio per chi compra (a prezzo minore) la manodopera e per chi la vende (in tutto il mondo) è palese. Il modello di business di Takeacoder lo illustra lo stesso CEO Enrico Massetti, italiano residente da 25 anni negli Usa: «Agiamo secondo le regole del franchising. – spiega – Ogni localizzazione del sito viene data in licenza a un webmaster (o un’azienda) locale che si occupa della traduzione, della raccolta pubblicitaria, del marketing e del customer care. Alla fine della fiera, i ricavi dei vari siti, derivanti da una commissione che committenti e providers pagano per ogni lavoro assegnato, sono suddivisi al 50 per cento tra i partner e Takeacoder LLC, la nostra casa madre».

Infine un accenno a Threadless. Si tratta di un eccellente esperimento (iniziato 8 anni fa) di crowdsourcing applicato al settore dell’abbigliamento giovanile o, più precisamente, delle T-shirt. Chiunque può iscriversi al sito e proporre la propria decorazione che, una volta online, viene sottoposta per sette giorni al giudizio e al voto di una vasta comunità. Se supera questa difficile e spietata selezione, il disegno diventa una maglietta, va in produzione e genera immediati guadagni per l’autore.

Il tutto senza il minimo bisogno di investire in costose indagini di mercato o in pubblicità.