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E’ morto Ilya Zhitomirskiy (co-fondatore Diaspora), il suo non era “un sogno da nerd”

Ilya Zhitomirskiy, co-fondatore di Diaspora insieme con Daniel Grippi, Maxwell Salzberg e Raphael Sofaer, è morto all’età di 22 anni. Nessun dettaglio per ora è stato reso noto sul come, sul dove e sul quando.

Era il 2010, nella settimana a cavallo tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre. Insieme con Luca eravamo alla Web2.0 Expo di New York, ed è lì che abbiamo conosciuto Maxwell e Ilya, presenti all’evento per raccontare la loro alternativa a Facebook. Della mezz’ora passata con i due ragazzi e dell’intervista fatta per Nova24, ricordo che a colpirmi fu soprattutto la lucidità del secondo, il modo maturo e deciso in cui rispondeva dall’alto dei suoi vent’anni alle critiche mosse dai detrattori del progetto e a chi, al tempo, sosteneva che i quattro studenti universitari newyorkesi non fossero all’altezza degli impegni presi e dei fondi (oltre 200mila dollari) raccolti con Kickstarter.

Ecco, di seguito il pezzo dell’articolo in cui è lui a parlare:

Impossibile non chiedere a Salzberg e Zhitomirskiy come gestiscono il peso di tante aspettative da soddisfare. Risponde Ilya: «C’è chi pensa che non ce la faremo mai e chi crede in noi. La verità è che, di volta in volta, noi abbiamo soddisfatto e continuiamo a soddisfare le attese. Non c’è alcuna magia – prosegue Ilya – semplicemente, lavoriamo duramente 12 ore al giorno. Qualcosa funziona al primo colpo, qualcosa invece richiede ulteriore sviluppo: ciò che ci che dà forza è sentire l’entusiasmo della gente per quello che stiamo facendo. Entusiasmo che in molti modi sta plasmando il progetto stesso, iniziato come un “sogno da nerd” e diventato qualcosa che appartiene a tutti. Insomma – conclude Zhitomirskiy – è rispettando le nostre promesse che gestiamo la responsabilità che ci è stata data».

Chiaro, diretto, lucido. Direste che ha solo vent’anni?

(Via)

E’ morto il blog, viva il blog!

Puntuali come le feste comandate tornano in queste ore gli annunci sulla morte dei blog con relative discussioni e confronti tra favorevoli e contrari. Ne ha parlato Enrico, caustico e ficcante come sempre. Gli hanno fatto eco Andrea Toso, che ha rincarato di parecchio la dose, e Massimo, che invece appare meno netto nel suo giudizio e più preoccupato dal significato e delle conseguenze di una eventuale morte dei blog.

Finora ho letto solo una parte dei commenti, ma mi sembra che, almeno questa volta, il sentiment delle persone che abitualmente leggo sia un pizzico più possibilista. Niente levata di scudi insomma, come ne ho viste in passato, per sostenere la salute ferrea e il futuro roseo dei blog.

E questo potrebbe già essere un indizio del fatto che Enrico possa avere ragione. Se così fosse, non sarebbe la prima volta.

Per quel che mi riguarda, non mi interessa sostenere una tesi o l’altra. Mi interessa capire, approfondire, trarre conclusioni e quindi ridefinire (o forse dovrei dire aggiornare?) le mie posizioni. Per curiosità e per necessità professionale.

Intanto un elemento: quando ho sentito il bisogno di partecipare alla conversazione, non mi è passato neanche per la testa di scrivere su Facebook o su qualsiasi social network site. Questo contenuto ci arriverà comunque, e potrà avere o meno fortuna (nel senso di diffusione), ma ho sentito il bisogno di realizzarlo in un contesto aperto e tuttavia controllato da me (ovvero il mio blog, che pure aggiorno poco). Ed è forse degno di nota anche il fatto che lo stesso Andrea Toso abbia sentito il bisogno di scrivere un lungo (e bel) post sul suo blog, per dire appunto che i blog sono morti. Tutto ciò, vorrà pur dire qualcosa.

Altro tema è che, leggendo qua e là, avevo la sensazione che qualcosa mancasse all’appello. Poi ho capito: mancano i numeri. Numeri affidabili, statistiche, cifre a sostegno dell’una o dell’altra tesi.

Quindi una domanda: con tutto il rispetto per i pareri espressi e per chi li ha formulati, non un po’ troppo autoreferenziale parlare di morte del blog (o di pre-pensionamento, per citare Contz), basandosi sul numero di feed che si legge ancora oggi, di post che si pubblicano e di lettori che li consultano, di commenti che si ricevono? Basandosi, insomma, solo sulla propria esperienza diretta che, come tale, è necessariamente limitata?

In attesa di una risposta, metto sul piatto alcune riflessioni schematiche e “volanti” basate anch’esse sulla mia esperienza diretta, e quindi condizionate da tutti i limiti del caso:

1) Il blog è uno strumento eccezionale per la pubblicazione, la stratificazione, la diffusione e la conservazione di contenuti complessi, intorno ai quali è anche possibile (sebbene magari oggi possa apparire meno seducente) instaurare una proficua discussione. E’ il luogo perfetto per conservare la conoscenza, così come i social network site si prestano meravigliosamente a rilanciarla e diffonderla. Allo stato attuale, più che di riconoscere passivamente come inevitabile un avvicendamento tra le due realtà, mi sembra ci sia più che mai bisogno di impegnarsi un cincinino per una maggiore integrazione, di favorire e anzi difendere questa complementarietà per il bene di tutti.

2) Forse il blog ha perso il suo appeal da strumento irrinunciabile per chiunque approdi in rete, e probabilmente è vero che il “99% per cento del cazzeggio” si è spostato su Facebook, Twitter” e compagnia cantante. Se così è, (e tutto sommato credo che lo sia), dal mio punto di vista è solo un bene. La validità dello strumento in sé resta indiscussa, mentre finalmente appare chiaro a molti che gestirne uno seriamente non è un passeggiata di salute, richiede impegno e dedizione, e sopra ogni cosa, richiede uno scopo. Quale che sia, da perseguire con idee chiare e decisione, indipendentemente dal fatto che chi apre il blog sia un singolo cittadino, un libero professionista, un’istituzione o un’azienda. Se insomma l’assottigliamento della blogosfera in favore della “statusfera” è frutto di una darwiniana selezione della specie, ben venga davvero.

3) Forse la morte di cui stiamo parlando – e questa sì, reale e inevitabile – è quella della creatività di un’intera “generazione” di blogger che in questi dieci anni ha imperversato nella rete italiana, cui va riconosciuto il merito di aver diffuso la cultura digitale e la colpa di essersi guardata troppo l’ombelico. Ma che inevitabilmente oggi ha esaurito la vena o le ragioni per usare uno strumento che, come tale, ha ancora molto da dire nelle mani di nuovi autori, pronti a farne uso con scopi e ragioni uguali o diverse da chi li ha preceduti.

Forse quello che oggi sta davvero morendo è il “blogger” che era in molti di noi incalzato dal cambiamento, dalla crescita e dell’evoluzione personale che lo stesso “fare blogging” ha determinato almeno in parte.

Insomma, è morto il blog, viva il blog!