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Studiare gli italiani 70 milioni di tweet alla volta (videointervista)

Incontrato a State of the Net, Vincenzo Cosenza – alias “il mago dei numeri” in forze a Blogmeter  – racconta cosa ha scoperto delle abitudini degli italiani analizzando 70 milioni di tweet pubblicati tra gennaio e aprile 2013.

Intervista realizzata insieme con Antonio Giacomin.

Zuckerberg e la privacy, ieri e oggi (ovvero: trova le differenze)

Dicembre 2009. Durante un’intervista con Michael Arrington (Techcrunch), Mark Zuckerberg – fondatore di Facebook – afferma che, se si fosse trovato a lanciare in quel preciso momento la sua piattaforma di social networking, tutte le informazioni relative agli utenti sarebbero state di default pubbliche invece che private. Poi spiega anche perché:

People have really gotten comfortable not only sharing more information and different kinds, but more openly and with more people. That social norm is just something that has evolved over time.

Oggi, dopo un doloroso scontro frontale con la Federal Trade Commission, il giovane CEO del più grande social network al mondo sembra essere sceso a più miti consigli.

Overall, I think we have a good history of providing transparency and control over who can see your information.

That said, I’m the first to admit that we’ve made a bunch of mistakes. In particular, I think that a small number of high profile mistakes, like Beacon four years ago and poor execution as we transitioned our privacy model two years ago, have often overshadowed much of the good work we’ve done. […] But we can also always do better. I’m committed to making Facebook the leader in transparency and control around privacy.

Quando si dice “cambiare rotta”.

Quando l’azienda incontra i social media (3 video, 11 casi studio e qualche riflessione)

Aziende B2B e social web. Un binomio che solo agli occhi meno attenti può ancora apparire improbabile e che invece, dopo lunghi anni di gestazione, nel 2011 si rivela possibile, efficace e anzi assai auspicabile. Oltre che spesso incentrato sul corporate blogging.

Di questo e di altro (compresi i “cinque stadi del dolore aziendale”) ho parlato lunedì scorso a Pordenone su invito di Unindustria (che ringrazio per l’ospitalità), durante l’ultimo di tre incontri formativi organizzati sotto il cappello Web3days e indirizzati alle aziende locali. Nella mia presentazione ho parlato della presenza e delle iniziative online di aziende “insospettabili” come Caterpillar, Shipserv, Black&Decker, Berto Salotti, Carbonelli o ancora Kinaxis e Indium. Ma ho anche aperto le danze citando tre casi storici (Kriptonite, Kensington e Dell) che come sospettavo sono stranoti agli esperti e del tutto ignoti alla maggior parte degli imprenditori italiani.

I video

La prima parte, della durata di circa 17 minuti, è dedicata ai “5 stadi del dolore aziendale” (vedere per credere) e a tre casi studio storici dove il primo, ovvero Kriptonite Locks (con rapida citazione di Kensington), serve a chiarire cosa è accaduto e accade quando un’azienda sceglie deliberatamente di ignorare la conversazione in corso in rete. Il secondo caso studio, invece, riguarda l’epopea di Dell, azienda passata dolorosamente attraverso tutti e cinque i sopracitati stadi ma che, alla fine (e dopo bel due anni), è uscita a testa alta dalla crisi. Il terzo, infine è l’arcinoto caso studio riguardante la Blendtech, i suoi incredibili frullatori e la “viralità” dei video in cui sminuzzano i prodotti più imprevedibili.

 

La seconda parte è dedicata in parte a casi studio B2B oriented in parte a iniziative B2C (Shipserv, Caterpillar, AZ Machine Tools, Ditre Italia, Torrefazione Carbonelli) dove si dà risalto a quanti e quali usi costruttivi si possano fare in aziende apparentemente molto poco social delle tecnologie nate nel cosiddetto web2.0. Di come ogni azienda debba e, a conti fatti, possa farle proprie e re-interpretarle per raggiungere al meglio i propri scopi.

 

 

Infine, la terza parte, di ben 22 minuti, vede terminare la carrellata di aziende cadute nella rete (si citano Kinaxis, Berto Salotti, Black&Decker, Indium), e poi accenna rapidamente al possibile futuro della comunicazione aziendale, definendo un trend che poi è la risultante di vari e autorevoli pareri da me raccolti negli ultimi tre anni di interviste (nello specifico, qui si citano Steve Rubel, Josh Bernoff e Derrick De Kerchkove). Il tema è che i siti corporate spariranno e la comunicazione aziendale sarà sempre diffusa, appannaggio di più dipendenti “empowered” dalle nuove tecnologie abilitanti.

 

La chiave di tutto, non è copiare la rete o anche solo prenderne a prestito le tecnologie. Il problema non è mai tecnologico. Il tema è fare uso dei nuovi strumenti per comprendere a fondo le potenzialità che essi esprimono, fare proprie le nuove dinamiche di interazione, condivisione e co-creazione che consentono, imparare a padroneggiarne i meccanismi e quindi ri-contestualizzare il complesso know-how acquisito all’interno dell’azienda. Così facendo, si rinnovano i processi esistenti, se ne creano di nuovi, si trovano e applicano soluzioni inattese.

In due parole, si innova. E poi, fatalmente, si vince sul mercato.

Altro tema che è emerso dalle ricerche fatte per mettere insieme questa presentazione è che il corporate blog, con buona pace di molti e sbrigativi “Gufi” della rete, non è morto. Se devi vendere acqua zuccherata (per citare Steve Jobs) è probabile che tu faccia bene a concentrarti su Facebook e Twitter. Ma se devi porti come thought leader nel tuo settore, se devi stabilire e condurre una conversazione con i tuoi stakeholder che sia proficua per tutti, se devi far emergere personalità, professionalità e competenza di chi lavora per te, in modo che tali qualità posizionino verso l’alto la tua azienda, allora ciò di cui hai bisogno è proprio un blog (e di tutte le aziende citate, solo due ne sono sprovviste).

Insomma, fare Businness 2 Businness significa anche (e sempre di più) saper fare del buon Blogging 2 Business.

Su Apogeonline parliamo di dati personali, carburante della nuova economia digitale

E’ solo grazie alla pazienza di Sergio se oggi, dopo mille rinvii, inizio a collaborare con Apogeonline.com. E lo faccio con un pezzo intitolato “Dati personali, il petrolio dell’economia digitale”, frutto di più interviste e contributi messi insieme negli ultimi mesi.

Ecco l’occhiello:

Benzina per il web sociale, ricchezza per chi ci mette le mani sopra. Tra privacy e publicy, il dibattito sulle posture sociali dei cittadini digitali non è mai stato così movimentato.

Ed eccone di seguito i primi due paragrafi, tanto per invogliarvi alla lettura:

Vogliono le nostre identità, sapere cosa pensiamo, sogniamo, desideriamo. Chi sono i nostri amici, quali i nemici, e che genere di relazioni ci legano a loro. Hanno bisogno di seguire ogni nostro movimento, documentarlo, catalogarlo e analizzarlo. Come nello splendido The Matrix, dove software senzienti sottomettono e sfruttano esseri umani trasformati in batterie viventi, così i giganti della rete (quelli con la G maiuscola, per intenderci) ci intrappolano con ogni genere di servizio “gratuito” e si nutrono dello “storytelling” delle nostre vite. O meglio, della sua puntuale rappresentazione digitale in forma di dati personali, mietuti e raccolti come fossero messi con strumenti sempre nuovi e imprevedibili.

PREZZO DA PAGARE
Un incubo? Non necessariamente. Forse è il prezzo da pagare per vivere nella società dell’informazione e forse viviamo davvero nell’era di quella che Stowe Boyd ha definito Publicy, dove contrariamente al passato tutto è pubblico di default e semmai bisogna decidere cosa debba essere privato. Del resto Mark Zuckerberg, giovane fondatore di Facebook, lo va dicendo ormai da anni che «il costume è cambiato e oggi le persone che si connettono online per interagire tra loro preferiscono condividere piuttosto che nascondere». Peccato che il ragazzo pontifichi sull’argomento mentre siede comodamente su un colossale conflitto di interessi.

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True or not, The “Mark Davidson Sindrome” Reminds Us a Big Lesson on Social Media + Ghost Writing

The story so far

Ghost writing can kill you. Or at least, it can kill your reputation. Ask Mark Davidson, Social Marketing & Communications Strategist at Shift+One Media, who (if all the story is true and not justa a stunt to get some media coverage) in the last few hours had his Twitter account and his credibility devastated by someone who claims to be “one of his three ghost writers”. The one he got fired after 4 years.

This guy logged into Davidson’s Twitter account at night while “drunk and hungry”, then published 8 updates to Davidson’s 55,642 followers.

Click to enlargeThe first one:

“Hi. I’m one of three people who have been ghostwriting @markdavidson‘s tweets for the last 4 years while he is out playing golf.”

Then the second one:

– “Well yesterday, @markdavidson fired 1 of his 3 ghostwriters of the last 4 years and forgot to change his Twitter password.”

Then he (or she) goes on saying that Davidson “is not that nice and is cheap”. But the most juicy tweet is this one:

– “So let me mow tell you the truth about @markdavidson. He can barely type social media much less know what it is“.

The mess ends with a sharable advice: “And change your freakin’ password!”.

Now, that was two days ago. Then something even worse happened when what probably was one of the two remaining ghost writer logged into Davidson’s account after the attack. At first, he published a strange tweet speaking like he didn’t read what was published before. And then:

Oh. I am so not dealing with this **** today. My only responsibility on this account is to respond to *all* @replies and @mentions. I quit.

Click to enlargeThen comes this one:

– WANTED: Social Media Account Ghost Writer. We’ve recently had an opening at http://twitter.com/#!/markdavidson. (Serious inquiries only.)

and then another one so far, which is my favorite one:

– Unfortunately due to unforeseen circumstances, the previously scheduled blog post, “How To Tweet Like a Boss” will not be posted today.

Yes. Good idea. Better not to.

The lesson to be learned

Now, If this is all this a joke, I just don’t get it. It could be a stunt to get some free coverage, or an experiment, but how is Davidson going to manage the aftermath? We’ll see.

In any case, what happened here points out that there’s an important lesson on how to deal professionally with social media to be learned: if you are a public speaker, a politician, a manager or whatever and you want to be on Twitter, it would be better if you manage your account by yourself.

On the other side, What to do if you want to be there but don’t have enough time to manage a real-time conversation? In that case you can hire one or more people to help you tweeting. There’s no shame in that: not if you are the one telling them what to write, if do you follow the conversation by yourself and do try to understand how this social network (or any other you want to be involved into) really works. And, above all, if you tell your readers the truth, that you are beeing helped, that there’s a stuff of smart people updating the account for you. Being honest with your followers is the most important thing. Tell them the truth and let them decide either to stay or go. Believe me,  you’ll be surprised. And you’ll earn trust.

If you do so, then who manually write down and the publishes you updates or monitor your followers, could be irrelevant. First and foremost if you

– follow the conversation;

– get involved;

– tweet anytime you can (and when you do, tell you follower it’s you like President Obama does;

– give answers;

And – please – choose carefully the people you are going to give your password to. Just as careful as if you were giving them your latchkeys.

It’s exactly the same thing.

Facebook Timeline is (almost) here

Zuckerberg starring at the  F8 developer Conference:

“Timeline is the story of your life and all the tools you need to express yourself. The beta period starts now”

And there it is:

facebook_timeline

Or better, there’s its presentation. Right now if you try to hit “Sign me up” (in Italy at least) it says the service will be available soon.

Look forward to trying it.

Google Buzz e la privacy degli utenti

Google Buzz è tra noi. La risposta di Mountain View a servizi di successo come Twitter, Friendfeed e Facebook si è materializzata magicamente direttamente nella e-mail, anzi nella Gmail di centinaia di milioni di utenti nel mondo.

In molti hanno apprezzato o, quantomeno, appreso con curiosità la notizia e ora sono lì che esplorano il nuovo servizio, mentre si domandano se e come possa tornare loro utile. C’è invece chi, come ad esempio Dave Winer, ne ha vissuto il lancio come un’invasione armata della propria privacy e si è letteralmente infuriato. O come Nicholas Carlson, editor di Paidcontent.org, che mette in evidenza i rischi per la privacy derivanti dall’uso del nuovo servizio, che crea automaticamente liste di persone da seguire scegliendo tra gli indirizzi mail più usati e poi le rende pubbliche, rivelando di fatto al mondo con chi l’utente si scrive più spesso. Con tutte le implicazioni del caso.

Certo, gli ingegneri di Google hanno predisposto tutti gli strumenti necessari per tutelare la propria privacy, consentendo a chiunque di accedere alle impostazioni e fare le proprie scelte.

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Buon compleanno Facebook

In queste ore ricorre il sesto anniversario dalla nascita di Facebook. Per l’occasione il suo creatore, Mark Zuckerberg, ha pubblicato un post intitolato “Six Years of Making Connections“, in cui riepiloga gli inizi della sua avventura, rivela che il numero degli utenti ha raggiunto l’incredibile quota di 400 milioni e promette nuove ma non meglio precisate meraviglie per il futuro. Parte di esse sono già visibili per circa 80 milioni di utenti, e consistono in un sostanzioso restyling della home page. Altre verranno svelate progressivamente nei prossimi giorni.

Scrive Zuckerberg:

Facebook began six years ago today as a product that my roommates and I built to help people around us connect easily, share information and understand one another better. We hoped Facebook would improve people’s lives in important ways. So it’s rewarding to see that as Facebook has grown, people around the world are using the service to share information about events big and small and to stay connected to everyone they care about.

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Il blog? Roba da vecchi

Sempre meno teenager e giovani americani dedicano tempo e impegno al blogging. Lo rivela uno studio di Pew Internet and American Life Project, intitolato “Social Media and Young Adults“, secondo cui solo il 14 per cento dei teenager statunitensi ha ammesso di aver “bloggato” nel 2009, contro il 28 per cento del 2006. Allo stesso modo, la percentuale di giovanissimi che lasciano commenti sui blog è scesa dal 76 per cento di tre anni fa all’attuale 54 per cento, mentre netta è anche la diminuzione dei blogger tra i giovani di età compresa tra 19 e 29 anni, scesa dal 24 per cento del 2007 al 15 per cento del 2009.

Nel rapporto si legge:

Two Pew Internet Project surveys of teens and adults reveal a decline in blogging among teens and young adults and a modest rise among adults 30 and older. Even as blogging declines among those under 30, wireless connectivity continues to rise in this age group, as does social network use.

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