Tre mesi fa, in preda ad un attacco di pura follia, il direttore del Military Office della Casa Bianca, Louis Caldera, autorizzava un volo che gli sarebbe costato il posto. L’aereo presidenziale Air Force One, scortato da due F-16, veniva inviato a New York per essere fotografato mentre sorvola allegramente la Statua della Libertà (guarda il video).
I cittadini non erano stati avvertiti: scoppia il panico, figlio del ricordo ancora fresco e dolente dell’attentato alle torri gemelle.
Era il 27 aprile. In quel preciso momento, tonnellate di messaggi postati da persone prima terrorizzate poi inferocite invadono diversi social media (soprattutto Twitter), mettono in grave imbarazzo la US Air Force e riportano prepotentemente il web2.0 all’attenzione del Pentagono.
Oggi l’infelice “scampagnata” dell’aereo presidenziale e le sue conseguenze tornano d’attualità perché lo stesso Pentagono pubblica un documento, nel quale si evidenziano “i rischi per la sicurezza nazionale dovuti all’esistenza dei siti di Social Networking”. Allo stesso tempo, nelle carte si trova ennesima conferma del fatto che i militari americani usano gli strumenti di comunicazione 2.0 per monitorare la “copertura” mediatica di eventi di rilievo strategico ed eventualmente avviare azioni di “contenimento”.
Ora, che l’aviazione militare USA monitori il web2.0 non è esattamente una novità: già nel luglio 2006 riportavo su Blogs4biz che
“l’aviazione statunitense ha finanziato un progetto triennale di studio e analisi della blogosfera: scopo della ricerca è stabilire se i blog possono o meno fornire “informazioni credibili” ed utili nella lotta al terrorismo planetario, ma anche elaborare un tool capace di distinguere facilmente le chiacchiere dai “dati sensibili”. Costo della ricerca: 450mila dollari.”
L’odierna novità consiste nelle molte e gustose informazioni che emergono dal rapporto realizzato al tempo del crisi mediatica dovuta all’incauto volo dell’Air Force One; rapporto che ora viene reso pubblico in ragione del Freedom of Information Act. Vediamone alcune.
– Subito dopo la colossale “gaffe” di New York, la US Air Force ha monitorato accuratamente Twitter, Youtube e un numero imprecisato di blog per costruire il quadro d’insieme della crisi mediatica e seguirne l’evoluzione.
– Per l’esercito americano, media come Twitter sono sia un risorsa, perché consentono di avere informazioni fresche e senza censura dall’interno e dall’esterno del paese, sia una minaccia, perché nella grande conversazione posso scivolare e sfuggire al controllo anche dati sensibili tali da essere una minaccia per la sicurezza nazionale.
– Proprio per quest’ultima ragione, il Corpo dei Marines ha ufficialmente bloccato l’accesso ai social network dai computer della propria intranet. Si tenta così di evitare che il loro uso da parte dei soldati possa rivelare “information to adversaries” e fornire “an easy conduit for information leakage”.
– Dal 2007 una task force di 9 elementi, la Combat Information Cell dislocata presso la base dell’aeronautica militare di Tyndall in Florida, “ascolta” il web2.0 per analizzare la diffusione e l’effetto dei “messaggi” diffusi dalla US Air Force.
– Dalla stessa base dipende anche un’altra unità, distaccata a Salt Lake City, che opera con scopi simili: è la 101st Information Warfare Flight.
– Il monitoraggio di Twitter ha rivelato la pubblicazione di un tweet al minuto nella prima fase della “Air Force One crisis” (quando circolò la notizia di un 747 “inseguito” da due F-16 nei cieli di New York). Poco dopo il rate di pubblicazione è salito a tre per minuto (generalmente commenti infuriati) mentre l’eco dell’evento su Twitter si è protratto per tre giorni prima di subire un calo, avvenuto solo il 30 aprile. Su blog ed altri media sociali il topic è restato di attualità per un tempo più lungo.
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