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Tablet e e-Book reader, a Natale raddoppiato il mercato statunitense

Calo dei prezzi, periodo natalizio, comparsa sul mercato di nuovi dispositivi come il Kindle Fire di Amazon. Secondo l’ultimo studio pubblicato da Pew Research Center’s Internet & American Life Project, sono queste alcune delle cause scatenanti che negli USA hanno fatto registrare il raddoppio del mercato relativo a tablet computer ed e-readers in appena un mese (da metà dicembre 2011 a metà gennaio 2012):

the share of adults in the United States who own tablet computers nearly doubled from 10% to 19% between mid-December and early January and the same surge in growth also applied to e-book readers, which also jumped from 10% to 19% over the same time period.

Come fanno notare sempre quelli di Pew Internet, degno di nota è anche il fatto che questa improvvisa impennata di vendite viene dopo un periodo di relativa stabilità, e che molto si deve probabilmente all’agguerrita politica di prezzi messa in campo dai principali produttori:

these findings are striking because they come after a period from mid-2011 into the autumn in which there was not much change in the ownership of tablets and e-book readers. However, as the holiday gift-giving season approached the marketplace for both devices dramatically shifted. In the tablet world, Amazon’s Kindle Fire and Barnes and Noble’s Nook Tablet were introduced at considerably cheaper prices than other tablets. In the e-book reader world, some versions of the Kindle and Nook and other readers fell well below $100.

Altra informazione interessante è che, mentre sostanzialmente si equivale la percentuale di uomini e donne che hanno acquistato un tablet, quando invece si parla di lettori come il Kindle, la “Ownership of e-readers among women grew more than among men”.

Per saperne di più:

Tablet and e-book reader ownership surge in the holiday gift-giving period

Il futuro visto dall’America

La brutta notizia è che i primi dieci anni del 2000 sono percepiti dagli americani come il periodo peggiore degli ultimi cinquant’anni. La buona è che l’orribile decade è finalmente alle nostre spalle e che, almeno secondo i 1504 statunitensi intervistati dal prestigioso Pew Research Center, già in questo 2010 avrà inizio un futuro migliore.

Guerra in Iraq, crisi economica, avvento dei reality show: la ricerca pubblicata a dicembre dal Pew evidenzia le cause di un pessimismo diffuso e radicato, confermato dal fatto che la maggioranza degli intervistati riconosce negli attacchi dell’11 settembre l’evento più importante del decennio appena trascorso, con l’elezione del presidente Barak Obama che si attesta solo al secondo posto.

La cosa interessante è che le speranze risposte nel prossimo futuro dipendono in buona parte anche dalla “overwhelmingly positive light” sotto cui la maggioranza dei partecipanti all’inchiesta vede i “progressi tecnologici e nelle comunicazioni” degli ultimi anni. Si legge infatti nella summary:

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Il futuro di Internet è nella fruizione in mobilità

“L’Internet mobile cresce molto più velocemente di quanto non siano cresciute in passato le connessioni da rete fissa e crediamo che, entro 5 anni, il numero di utenti collegati alla Rete in mobilità con device portatili supererà le connessioni via desktop”.

Quello appena citato è solo uno dei sette temi chiave intorno ai quali ruota “The Mobile Internet Report”, una corposa ricerca appena pubblicata dalla Morgan Stanley e dalla quale si evince che il futuro della Rete – almeno secondo gli analisti della banca d’affari – è nella fruizione della Rete tramite dispositivi mobili.

Prima ancora della mole di dati fornita nel rapporto, a colpire è tuttavia la modalità adottatta nella sua distribuzione al pubblico: The Mobile Internet Report” è infatti disponibile gratuitamente alla consultazione in Rete in tre diverse edizioni, corrispondenti ad altrettante presentazioni in formato pdf rispettivamente da 92, 424 e 659 pagine.

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2020, il computer si accende con la forza del pensiero

Provate a immaginare di sedervi davanti al vostro computer, accenderlo e iniziare a navigare in Rete oppure a scrivere il testo di una mail usando la sola forza del pensiero. Fantascienza? Non proprio. O forse è il caso di dire “ancora non per molto”.

Secondo i ricercatori di Intel, della Carnegie Mellon University e dell’Università di Pittsburgh, entro il 2020 i chip da impiantare nel cervello per telecomandare con le onde cerebrali ogni genere di apparato usciranno dai romanzi della lettura cyberpunk per entrare nella nostra vita di tutti i giorni. E quindi cambiarla per sempre.

Al momento la ricerca è incentrata sull’individuazione dei “brain pattern”, gli schemi fissi di funzionamento del cervello (evidenziati da una risonanza magnetica funzionale) che poi dovranno essere associati in maniera univoca a parole, immagini, idee e quant’altro passi per la mente di una persona.

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News online a pagamento, cosa rispondono gli utenti?

Se il futuro delle news online fosse a pagamento, in quanti sarebbero disposti a pagare? E quale cifra? Queste sono probabilmente due delle domande che in questi mesi più tormentano gli editori di tutto il mondo, assediati come sono dalla pesante crisi di settore in atto, dalla necessità di trovare nuovi modelli di business e dalle pressioni indirette generate dalle “rivoluzionarie” iniziative promesse dal magnate dei media australiano Rupert Murdoch.

Qualcuno ha provato a dare delle risposte: il Boston Consulting Group (BCG) ha realizzato una ricerca (citata dal New York Times) che, a conti fatti, non sembra essere esattamente foriera di buone notizie per il settore, specie per chi lavora con il pubblico statunitense.

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Corporate blog, i consumatori si fidano poco

Mi spiace ammetterlo, ma me lo aspettavo: secondo l’ultima ricerca pubblicata da Forrester Research, solo un consumatore su sei crede ai corporate blog, pari a un misero 16 per cento.

Il perché è chiaro: basta fare un giro nella blogosfera dei “presidi 2.0 aziendali” per capire come, ad oggi, siano ancora in pochi ad aver capito che il corporate blog non è l’ennesimo raccoglitore di comunicati stampa.

Le ragioni dietro questo risultato avvilente sono varie: scarsa comprensione della blogosfera e delle sue dinamiche; tendenza ad applicare metodi vecchi o semplicemente inadatti alla nuova comunicazione online; impreparazione di coloro che, nell’azienda, spesso si vedono improvvisamente passare la “patata bollente” del corporate blog; semplice arroganza.

La soluzione? E’ complessa e articolata e di certo passa dall’includere il blog in una strategia di comunicazione esterna di ampio respiro, oltre che mirata al mondo dei nuovi media.

Serve investire denaro, destinare risorse umane valide e smetterla una volta per tutte di pensare che fare una cosa in rete significhi ancora poter “arruffare” spendendo quattro soldi.

Nel caso non ve ne foste accorti, siamo quasi nel 2009.

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Ricerca: i blogger sono più credibili dei “compagni di social network”

Sempre più spesso si fa riferimento ai blogger, o meglio ad alcuni tra i blogger più seguiti qui in Italia come nel resto del mondo, usando il termine “influencers”. Una recente ricerca pubblicata da Jupiter Research sembra dimostrare che, almeno in alcuni casi, non si tratta solo di un vuoto termine mutuato al linguaggio del marketing.

Commissionato da BuzzLogic, lo studio sostiene infatti che i consumatori, quando si apprestano a fare acquisti e hanno la possibilità di scegliere tra i consigli degli “amici” che “frequentano” sui social network o i pareri dei blogger, in generale si rifanno più volentieri a quest’ultimi prima di investire il proprio denaro.

Dando un’occhiata ai numeri della ricerca, si capisce tuttavia che entrambe le “fonti d’informazione” non sono ancora così preponderanti: del campione di utenti oggetto della ricerca (il numero non è stato svelato), solo una porzione viene infatti classificata come “blog readers”, ovvero persone che leggono mediamente più di un blog al mese.

Di questa “minoranza”, solo il 15 per cento degli intervistati (che poi corrisponde al 5 per cento dell’intero campione) ha confermato di aver fatto affidamento su un blog per decidersi ad un acquisto nell’ultimo anno.

Se invece si analizzano i dati relativi a coloro che fanno ricorso alle cosiddette “social-network recommendations”, allora la percentuale scende al
10 per cento dei “blog readers”, ovvero il 4 per cento dell’intero campione in esame.

La “supremazia” dei blog intesi come opinion leader rispetto ai “compagni di social network” viene poi riconfermata e rafforzata quando si parla di advertising: il 25 per cento dei blog readers dice infatti di ritenere credibile quella veicolata dai blog, mentre solo il 19 per cento di loro crede a quella diffusa nei social networks.

In generale, l’impressione è che la percentuale dei “lettori di blog” presenti nel campione in esame sia ancora piuttosto bassa, e che quindi il loro “primato morale” sui “compagni di social network” sia tutto sommato una vittoria di Pirro.

UK, una ricerca dimostra l’efficacia del mobile advertising

I numeri contenuti nella ricerca realizzata da Dynamic Logic parlano chiaro: gli utenti di telefonia mobile britannici sono più che disposti a visionare pubblicità sul proprio telefonino se in cambio ricevono video contenuti gratuiti.

Lo studio ha richiesto 6 settimane di indagini: l’obiettivo era valutare l’efficienza di “pre-roll mobile ads” veicolati attraverso il gestore di telefonia mobile O2 ed ha coinvolto 600 persone tra uomini e donne con età non inferiore a 16 anni. Tra i brand coinvolti figuravano anche Citroen ed LG, “comunicati” attraverso spot di 15 secondi targettizzati per età e sesso.

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La verità sul rapporto tra aziende e social networks

Come chi si sveglia di colpo da un incubo nel pieno della notte, molte aziende nel mondo hanno improvvisamente scoperto ed imparato a temere i social network.

Superato lo choc, un numero crescente di loro ha anche iniziato ad investire qualche spicciolo nel tentativo di farsi amici coloro che non potevano battere e fare community intorno al proprio brand o a un prodotto specifico. Qualcuno ci è persino riuscito ma, almeno secondo l’ultima ricerca pubblicata dalla Deloitte, in media i risultati sono ancora deludenti.

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